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Donald Trump si avvia a tornare alla Casa Bianca e il Medio Oriente attende le prossime mosse degli Usa. Si è molto speculato di ciò che Trump potrebbe, vorrebbe o sarebbe spinto a fare dopo la netta vittoria elettorale. E tutti i leader della regione in guerra del 7 ottobre 2023, giorno degli attacchi di Hamas a Israele, guardano con attenzione all’America. Ma prima di prendere in considerazione gli scenari è bene partire dagli elementi consistenti che abbiamo in mano: fare ipotesi su ciò che Trump potrebbe fare a gennaio significa ipotizzare un contesto potenzialmente cambiato rispetto a oggi.
Medio Oriente: uno scenario in costante mutamento
Il 20 gennaio è tra due mesi e mezzo. Ebbene, due mesi e mezzo fa erano ancora vivi Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, e Yahya Sinwar, comandante di Hamas. Non erano piovuti missili iraniani su Tel Aviv, non c’era stata un’analoga reazione israeliana sulle basi militari della Repubblica Islamica, il Libano non era in guerra ed era ancora attiva, claudicante, la mediazione di Usa, Egitto e Qatar a Gaza. Ora, Nasrallah e Sinwar sono morti, in Libano nella guerra scatenata dai servizi israeliani, dall’aviazione e dall’esercito di Tel Aviv contro Hezbollah sono morte circa 2.800 persone in due mesi, le prospettive di pace sono azzoppate. Benjamin Netanyahu era in difficoltà politica, ora è primo nei sondaggi. Questo per dare un dato chiaro: lo stato dell’arte è in cambiamento continuo. Ma esistono almeno tre punti fermi su cui ragionare.
Trump sostenitore di Israele. Ma con l’impegno di porre fine a “tutte le guerre”
Primo punto: Trump è convinto sostenitore di Israele. E ne ha dato dimostrazione nel primo mandato. Ma ha fatto una campagna elettorale impegnandosi a porre fine a “tutte le guerre”. Il vicepresidente J.D. Vance ha dichiarato in campagna elettorale di non essere favorevole all’operazione militare di Israele contro l’Iran. Dunque è possibile che emerga una sostanziale linea di demarcazione nelle guerre dello Stato ebraico viste dall’America: la mano libera su Gaza non implicherebbe un’analoga postura sull’Iran e il Libano. Troppo alto l’onere per gli Usa, troppo costoso e rischioso l’obiettivo, troppo confliggente con il desiderio di una pacificazione con la Russia che mal si concilierebbe con un braccio di ferro con gli alleati regionali di Mosca.
Come sono lontani i tempi degli Accordi di Abramo
Secondo dato concreto: nel 2021 Trump ha lasciato la Casa Bianca con un Medio Oriente che aveva appena sviluppato gli Accordi di Abramo, ovvero la sinergia tra Israele e Paesi arabi, come Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, proprio col fine di contenere Teheran. Ma ora, mentre da un lato gli alleati di Washington sono più saldi individualmente in termini militari e securitari, dall’altro il loro asse si è rotto a causa della strage di Gaza. Non a caso Trump ha detto che non sarà nella nuova amministrazione Mike Pompeo, artefice diplomatico degli Accordi di Abramo: si prepara una svolta politica fondata sui rapporti bilaterali?
Trump e la gestione dei ribelli yemeniti
Infine, gli Usa hanno avviato, con Biden, una presenza militare nella regione per contrastare gli Houthi yemeniti e difendere il traffico nel Mar Rosso. La prima sfida di Trump sarà capire cosa fare dello schieramento di Prosperity Guardian e come continuare a gestire la bomba dei ribelli yemeniti. Dunque difendere la globalizzazione dalla volontà dei miliziani di destabilizzarla, mentre la si combatte a casa.
Gli arabi statunitensi hanno scelto Trump: è tempo di ricambiare
Trump dovrà dunque mostrare moderazione e attenzione a non esporre eccessivamente gli Usa. Pensare ad azioni radicali nei primi mesi di amministrazione deve tener conto di questi vincoli, e del fatto che The Donald ha sfondato, contro i dem, nel voto arabo presentandosi come possibile risolutore dei conflitti. Potrà una cambiale elettorale essere spesa nella direzione di una spinta al contenimento dei conflitti? Non è da escludere affatto.
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