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Licia Pinelli se n’è andata in silenzio, così come ha vissuto, portandosi dietro una storia dolorosa e controversa, ma di quelle che pesano come macigni. Era la moglie di Pino Pinelli, l’anarchico accusato – senza prove, senza diritti – di essere responsabile della strage di Piazza Fontana. Una strage che, per chi conosce quella pagina buia della nostra storia, significa inizio di anni di piombo, tensioni che non hanno mai davvero lasciato il Paese.
La vita di Licia Pinelli, però, non si è fermata quella notte del 15 dicembre 1969, quando suo marito volò giù dal quarto piano della Questura di Milano. È cominciato lì un percorso di lotta e resilienza, in cui ha sfidato lo Stato e i suoi apparati. Licia ha tenuto testa a chi voleva seppellire la verità insieme al marito, a chi voleva chiudere in fretta quella storia che “infastidiva” le istituzioni. La sua è stata una battaglia lunga, estenuante, fatta di silenzi più che di proclami, e di sguardi più che di parole.
E poi c’è un altro nome che entra in scena, quello di Luigi Calabresi, il commissario di polizia legato a doppio filo alla vicenda. Anche lui, poi, vittima della violenza politica, assassinato nel 1972 in un contesto dove le distanze tra buoni e cattivi si erano fatte sfocate, e dove il dolore e il sospetto non conoscevano più confini netti. La storia della famiglia Pinelli si intreccia con quella della famiglia Calabresi, in un gioco crudele che ha lasciato cicatrici in entrambi i casi. Nel tempo, però, è avvenuto l’inimmaginabile: le due famiglie, quelle di Pino Pinelli e di Luigi Calabresi, hanno trovato il coraggio di incontrarsi e di cercare un dialogo. Un miracolo civile, forse unico, in un’Italia ancora lacerata da troppi fantasmi e da troppi muri.
Oggi, ricordare Licia Pinelli significa raccontare una vicenda di sofferenza e dignità che ci riguarda tutti. Lei ha incarnato, fino alla fine, quella volontà di non piegarsi, di non cedere alla tentazione di odio. E mentre se ne va, resta con noi l’amara consapevolezza che le ferite di Piazza Fontana, delle morti di Pinelli e Calabresi, non si sono mai davvero chiuse.
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