Rinnovo Patente? Facile ed Economico
Il commento
Il ministro Giorgetti lo ha detto a più riprese: occorre che il capitale privato concorra alla crescita dell’Italia: “Le risorse pubbliche non bastano per affrontare le sfide che il Paese ha davanti – trasformazione digitale, calo demografico, difesa comune e nuove infrastrutture – quindi bisogna mobilitare il risparmio privato”. Fondi pensione e Casse di previdenza private o privatizzate rappresentano un cespite goloso, con un patrimonio rispettivamente pari a circa 243,4 miliardi di euro e 124,7 miliardi di euro.
In questi giorni sembra che il Mimit si sia disposto a concedere a questo pacchetto di circa 370 miliardi di euro l’autorizzazione al venture capital. Se i Fondi pensione devono costruire il secondo pilastro della previdenza complementare, le Casse devono garantire il primo a quel 1,7 milioni di professionisti che non sono assicurati con Inps. Criteri e rischi devono essere gli stessi? Forse no.
Negli ultimi quindici anni più di una Cassa (o ente previdenziale autonomo) è stata “inglobata” nell’Inps perché erano venute meno le condizioni di equilibrio del bilancio: prima l’Inpdai, poi l’Ipost e infine l’Inpgi. E prima ancora era toccato allo Scau. Ne sono rimaste una ventina, ma le prime quattro fanno i tre quarti del patrimonio. Il loro mestiere è fare finanza o assicurare la previdenza? Si dirà che i due termini si intrecciano in qualche modo; è vero, ma l’orizzonte in cui ci si muove dovrebbe essere diverso. La prima decisione della nuova presidente di Enasarco, Patrizia De Luise – prima donna al vertice della Cassa degli agenti di commercio – è stata quella di vendere la cospicua partecipazione (circa il 3%) in Mps. E al contempo di rafforzare la quota in Mediobanca. Difficile sottrarsi all’idea che ci sia una attiva partecipazione al risiko bancario in atto, come peraltro accade per Enpam e Cassa Forense. Tutto lecito. Ma opportuno? E’ opportuno partecipare a stagioni fortemente speculative per assicurare i migliori rendimenti per produrre le prestazioni previdenziali più adeguate ai propri iscritti?
Se non fosse “speculazione finanziaria” potrebbe anche essere “amichettismo”: il neologismo ammesso da un anno dalla Treccani sta a significare “il comportamento di chi, generalmente da una posizione di potere e di prestigio, favorisce i propri seguaci”. Se fossero parenti sarebbe nepotismo.
Ma è questa la missione delle Casse di previdenza? E il loro orizzonte temporale non dovrebbe essere visto nell’ordine di qualche decennio, non di qualche settimana? E ci sono le competenze adeguate per scegliere le opportune asset allocation?
Qualche risposta viene dalla recente analisi condotta dalla Commissione bicamerale di vigilanza sugli enti previdenziali. “Nell’attività di investimento delle Casse si registra un forte coinvolgimento degli advisor. Tale coinvolgimento, dovrebbe peraltro supportare le Casse nella definizione di politiche di investimento che tengano conto delle differenti specificità delle platee di riferimento, che pure esistono, essendo correlate a diverse categorie di professionisti. Tuttavia, dall’indagine è emersa una certa omogeneità delle politiche di investimento, che sembra quindi non essere in linea con tale premessa”.
A parità di altre condizioni la politica di impiego di un ente caratterizzato da una platea molto giovane non dovrebbe essere la medesima di un ente maturo. L’ottimizzazione della combinazione rischio-rendimento del portafoglio nel suo complesso dovrebbe quindi caratterizzarsi per la scelta di prodotti finanziari/reali “migliori” per liquidabilità, rendimento e livello di rischio e in coerenza con le caratteristiche della platea di riferimento dell’Ente. Ma così non è.
Non solo. I rendimenti, che dovrebbero essere ottimizzati da questo ricorso massiccio agli advisor, non sembrano invece offrire spunti significativi. Tant’è vero che “i rendimenti cumulati dei BTP (30 anni, rendimenti lordi a scadenza) pari al 14,82% sono superiori ai rendimenti cumulati medi contabili lordi realizzati dalle Casse (pari al 13,32%)” si legge sempre nella relazione della Commissione Bagnai.
Insomma, tanti advisor da pagare, poca differenziazione di investimenti, in relazione alle platee, modesti rendimenti, in linea con quelli offerti dai titoli pubblici. Con severità la relazione non trascura anche il tema dei “compensi” (gettoni di presenza) “percepiti dai soggetti (frequentemente i componenti del Consiglio dei delegati/C.d.A.) indicati dagli Enti per la partecipazione negli Advisory board/comitati consultivi. Tali compensi, sebbene finalizzati a favorire il controllo sull’andamento gestionale, assumono importi non marginali che potrebbero andare a discapito del perseguimento del miglior interesse degli iscritti, ossia della selezione dei migliori prodotti finanziari in termini di rischio/rendimento e connessi costi”.
Forse qualche riflessione sarebbe utile, soprattutto per rassicurare i professionisti che non possono scegliere: il loro futuro previdenziale è nelle mani delle Casse.
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