Rinnovo Patente? Facile ed Economico
“Le Rotte del Futuro. Re-industrializzare l’Italia e l’Europa”
E’ iniziata a Roma la Conferenza nazionale del Pd sulle Politiche industriali dal titolo “Le Rotte del Futuro. Re-industrializzare l’Italia e l’Europa” presso gli Studios di via Tiburtina 521. L’iniziativa, promossa dal Forum Industria del Partito Democratico coordinato dall’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando, si concluderà, domani, sabato 12 luglio con la presentazione delle proposte del Pd in materia di politica industriale e con l’intervento della segretaria Elly Schlein.
IL VIDEO PER SEGUIRE I LAVORI DELLA CONFERENZA
[embedded content]
LA SINTESI DELLA RELAZIONE INTRODUTTIVA DI ANDREA ORLANDO ALLA CONFERENZA NAZIONALE DEL PD SULLE POLITICHE INDUSTRIALI
Negli ultimi due anni la caduta della produzione industriale è stata pressoché costante.
Sono di ieri i dati che fotografano un ulteriore calo dello 0,7% a Maggio rispetto al mese precedente.
E dello 0,9 % rispetto al Maggio del 24.
A trascinare verso il basso l’indice sono stati due settori che un tempo costituivano la forza del nostro manifatturiero: l’automotive e la moda.
In questi due anni abbiamo assistito a nuove e vecchie forme di spoliazione del patrimonio industriale, delocalizzazioni e svuotamenti progressivi, cessioni opache di asset strategici da parte di multinazionali e fondi speculativi.
Il quadro della crescita per il prossimo anno è tutt’altro che confortante, ma non è della congiuntura che vogliamo parlare.
Vogliamo partire da due domande di fondo: i fondamentali dell’industria italiana sono adeguati ad affrontare questo tempo di tempesta? E cosa fare per scongiurare un’accelerazione del processo di deindustrializzazione iniziato negli anni ’80, rivendicando al contrario l’ambizione di una reindustrializzazione dell’Italia e dell’Europa?
Perché un Paese che perde la propria industria perde anche una parte rilevante della propria industriosità, del proprio saper fare, che è un elemento essenziale dell’identità di una nazione.
Una base industriale solida, innovativa e sostenibile è condizione necessaria per la qualità del lavoro, la creazione di ricchezza, la coesione sociale e della possibilità di riconoscere al lavoro e ai lavoratori il loro ruolo a fondamento della democrazia.
Il modello di sviluppo che costruiremo definirà la cifra di eguaglianza della nostra società.
Vogliamo parlare della prospettiva ma non possiamo tacere di come anche l’inerzia di questi anni abbia inciso sui fondamentali.
Il Ministro Urso di fronte alle commissioni di Camera e Senato ha avuto modo di spiegare, l’11 Dicembre scorso, la sua confusa strategia negoziale con Stellantis per garantire che quest’ultima avrebbe prodotto un milione di veicoli nel nostro Paese. Secondo Urso, l’idea era quella di individuare un secondo produttore di auto elettriche, al contempo spiegava lo stesso Urso, chiedere all’Europa di rallentare rivedendo i regolamenti di passaggio all’elettrico.
L’efficacia di questa strategia è stata chiarita dalla sprezzante, nei contenuti, audizione di Elkann qualche mese dopo, il 19 Marzo scorso, di fronte alle stesse commissioni. In quell’occasione, Elkann ha assunto impegni generici, la purtroppo vera ipoteca del costo dell’energia e l’affermazione assai discutibile del debito che il nostro Paese avrebbe con il suo gruppo. Curiosamente tralasciando gli eventuali crediti. Il fatto è che oggi non c’è un secondo produttore e che il numero dei veicoli prodotti nei primi 6 mesi è stato di 221.885, è difficile pensare che nel secondo semestre si producano oltre 750 mila veicoli…
In questi mesi ENI ha sostanzialmente deciso di smantellare la chimica di base, in barba alle indicazioni europee sulle filiere strategiche. Il Ministro Urso ha cercato di resistere da Palazzo Chigi, ma è arrivato il diktat per il via libera ai piani di quella che ormai, più che un’azienda, è un soggetto che rischia di diventare consustanziale alla maggioranza di governo e addirittura alla governance del Paese.
Dopo la controversa esperienza del 110%, l’edilizia è stata privata di ogni riferimento. La diminuzione del fatturato degli interventi legati ai residui dei bonus di cui ha scritto ieri il Sole 24 ore e la fine dell’effetto Pnrrr lascia presagire un ritorno all’economia informale e ad una frenata di questo settore proprio mentre diventa sempre più cruciale il tema della trasformazioni delle città e quello della casa.
La vicenda ILVA è sotto gli occhi di tutti.
E noi vogliamo collaborare per evitare che un soggetto strategico di questa portata si fermi. Però va detto che un Paese che perde l’automotive, smantella la chimica ,con l’edilizia in ambasce e che rischia di perdere l’acciaio sta compromettendo il proprio standing industriale.
Tutto ciò reclamerebbe una politica industriale strutturale, capace di andare oltre la contingenza e di sottrarsi alle scorciatoie elettoralistiche. Purtroppo, non è stato così. Il regime forfettario è sicuramente un ottimo strumento di consenso ma non certo un modo di far crescere le imprese. E cosa dire di un fondo sovrano che dovrebbe stimolare l’innovazione e gli investimenti con una dotazione che è un quindicesimo del più piccolo esistente al mondo ?
Sul tema dell’energia, se ogni invocazione del nucleare avesse abbassato il prezzo di un centesimo, oggi avremmo la bolletta più bassa d’Europa. Ma il nucleare, pulito o sporco che sia, non è all’orizzonte, quando manca ancor oggi un deposito nazionale, e così un megawatt prodotto con le rinnovabili costa quanto uno prodotto con il gas.
Lo strumento “Industria 5.0” è stato utilizzato pochissimo, ostacolato da meccanismi inaccessibili per le PMI. Era pensato per sostenere gli investimenti, ma è stato progettato ignorando la realtà produttiva italiana, cioè il fatto che le piccole imprese non hanno la struttura necessaria ad affrontare procedure complesse e costose. Noi partiamo da queste fragilità che abbiamo analizzato nel confronto con gli esperti e con i portatori di interessi e che abbiamo incrociato nelle visite sul territorio, in un viaggio che ha già toccato metà delle regioni del Paese.
Noi abbiamo cercato di offrire alcune risposte con alcune proposte e indicazioni di programma. Vi è l’idea che serva una nuova programmazione, fondata su un patto tra Stato e imprese e lavoro.
E che il lavoro di qualità debba tornare al centro delle politiche industriali; che le transizioni debbano essere guidate e non subite. Possiamo fare leva peraltro su un tratto che caratterizza il nostro sistema economico ed è fattore di coesione e partecipazione, mi riferisco al patrimonio cooperativo e al privato che vogliamo sostenere nel cambiamento.
Proponiamo investimenti orientati da una logica di missione, concentrati sulle filiere strategiche della transizione secondo principi di selettività e condizionalità; una nuova governance, nazionale ed europea, dotata di risorse e bilancio adeguati; una diplomazia industriale al servizio dell’autonomia strategica del continente. In sintesi, un’idea dell’Europa nel mondo e del ruolo che l’Italia deve giocare per fare la sua parte, con un protagonismo delle forze democratiche e progressiste.
Vogliamo una discussione vera e aperta.
Sappiamo che anche tra noi esistono idee e approcci diversi.
E’ bene che emergano perché credo che la chiarezza della discussione possa dare forza ad un approdo comune ed espansivo.
Questa è la base di partenza che offriamo al Paese all’inizio di un percorso.
Nei prossimi mesi, sottoporremo il Libro Verde alla discussione degli organismi dirigenti del Partito. Questo passaggio sarà fondamentale per trasformare le proposte in iniziative condivise. Successivamente, in autunno, avvieremo una consultazione strutturata con gli stakeholders, filiera per filiera, territorio per territorio. L’industria degli alibi, di cui abbiamo parlato, ha avuto come bersaglio prioritario l’Europa.
Nessuno si salva fuori dall’Europa.
Ma questo vale la maggior ragione per per l’Italia.
Il suo mix energetico, il peso del debito pubblico, la sua caratterizzazione manifatturiera fanno sì che l’Italia sia il paese che forse ha più interesse ad una mutualizzazione del peso delle transizioni: il che significa integrazione.
Lo abbiamo visto durante la sospensione del divieto di aiuti di Stato. Abbiamo visto chi ha fatto la parte del Leone. Senza politiche fiscali ed industriali integrate l’Italia rischia molto e sganciarci dunque dall’embrione di politiche industriali europee non è affatto una buona idea ed è sicuramente contro l’interesse nazionale.
La crociata contro il Green deal è il capitolo principale dell’invenzione degli alibi come se la cancellazione degli obiettivi europei cancellasse l’esigenza testimoniata ogni giorno dal pianeta e ancor più l’ineluttabilità dettate dalla programmazione dei grandi player di un processo che si ormai innescato. Il risultato è una strategia negoziale che mendica proroghe all’Europa anziché esigere risorse, quelle necessarie alla transizione di un grande paese industriale mettendolo al riparo dalle varie forme di dumping. Un Paese, il nostro, senza l’apporto industriale del quale l’Europa perderebbe gran parte del suo standing produttivo.
Se c’è infatti a mio avviso una riserva da sollevare alla strategia europea sino qui impostata, aldilà di alcune rigidità attuative, è proprio la mancanza di una commisurazione tra la giusta ambizione degli obiettivi e l’esiguità dei mezzi.
Sin dal ‘22 proponemmo l’istituzione di un fondo per la gestione delle trasformazioni produttive determinate dal green deal mediante la stabilizzazione di Sure, la misura che aveva consentito di affrontare difendendo la capacità produttiva del continente, il dramma del COVID.
La contrarietà dei cosiddetti paesi frugali e della Germania impedì di raggiungere questo obiettivo. Ma è in questa asimmetria tra i fini e i mezzi che si è inserita con successo la campagna della destra, facendo presa su lavoratori, consumatori e imprese sui quali rischiano fatalmente di scaricarsi i costi non affrontati appunto da adeguate misure a livello comunitario.
Sappiamo che l’Europa è l’orizzonte, ma sappiamo anche che non possiamo aspettarci molto dall’attuale governo europeo né dalla commissione con la sua doppia maggioranza, né da un consiglio dominato dalle destre.
Lo ha dimostrato molto bene la vicenda della cosiddetta bussola per la competitività elaborata dalla commissione. Uno strumento che ha correttamente individuato le cose da fare per poi non farle. Come un malato con la ricetta in mano che decide di non comprare i farmaci in grado di salvarlo.
Dobbiamo evitare di restare incastrati nella trappola della destra che da un lato destruttura le politiche europee in atto e impedisce all’Unione di esercitare un ruolo nell’ambito delle politiche industriali, facendo crescere il rischio di una sostanziale colonizzazione produttiva del nostro continente e dall’altro addossa all’Europa le proprie inadeguatezza.
Per questo la sfida è duplice, dare una base di massa collegandosi ai corpi sociali europei alla battaglia per la re-industrializzazione e sfidare il governo Meloni con un Piano nazionale per l’industria.
L’Europa non può essere usata come alibi per evitare di fare ciò che si può fare nella dimensione nazionale.
E vogliamo dire da qui, con il massimo della sobrietà ma anche della fermezza: la risposta al rischio dì de-industrializzazione del nostro continente non può essere una politica di riarmo.
Certo, in questo percorso vogliamo far emergere le nostre proposte per l’alternativa, confrontarci con le forze del lavoro e delle imprese e cercare un terreno comune con le altre forze dell’opposizione. Ma, a mio avviso, c’è un’esigenza più essenziale, esistenziale per la politica in generale e per un partito come il nostro in particolare. In questo tempo, nel quale il rapporto tra l’uomo e la macchina sta così rapidamente cambiando, diventa ancor più stringente, automatico direi, un dato, che ci accompagna da sempre: se non rappresenti qualcosa nel processo produttivo, rischi di non rappresentare nulla in quello politico.
L’organizzazione del lavoro, la società, la famiglia sono destinati a mutare con una rapidità che non ha precedenti nella storia umana sotto la spinta del cambiamento del modo di produrre.
Non cogliere questo significa perdere qualunque forza politica. Io credo che vada almeno in parte letto così il rischio di espulsione dalla scena di molti soggetti della sinistra nei paesi europei. Questa considerazione implica scelte conseguenti sul piano politico e organizzativo, ma prima di tutto occorre comprendere ciò che sta cambiando e farlo diventare consapevolezza comune.
Capire per cambiare con la forza di una collettività organizzata, altrimenti anche l’encomiabile intento di tornare nei luoghi del lavoro e nelle periferie rischia di apparire come un cambio di quinta scenografico. Stare nei luoghi significa conoscerli e offrire una lettura e un’ipotesi di cambiamento a chi li vive. Questo è il senso del lavoro che abbiamo avviato.
Rinnovo Patente? Facile ed Economico
Questo articolo è stato pubblicato in origine su questo sito internet