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Cosa rischia la tregua a Gaza e quali scenari si aprono dai colloqui al Cairo? Parla l’esperta Ispi 

Quali sono le sfide e le incognite che attendono la seconda fase del piano di Trump? È davvero possibile un accordo duraturo tra Israele e Hamas, o il rischio di nuovi conflitti resta alto? A fare il punto è Sara Isabella Leykin, assistente di ricerca presso il Centro Medio Oriente e Nord Africa di ISPI, che ai microfoni di Affaritaliani analizza gli scenari aperti e le complessità politiche di questa delicata fase, ricca di nodi ancora irrisolti. 

L’attuazione della fase 2 del piano di Trump – che prevede il dispiegamento di una forza internazionale di stabilizzazione, il ritiro parziale dell’esercito israeliano e il disarmo di Hamas – è realizzabile nel breve periodo? O ci sono dei forti ostacoli? 

“La prima fase del piano di Trump si è concentrata su misure su cui Hamas e Israele avevano già raggiunto un’intesa nel cessate il fuoco di inizio anno: il rilascio degli ostaggi israeliani, quello dei prigionieri palestinesi e il ritiro parziale dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza. La fase che si apre ora, invece, è la più complessa, quella in cui emergono i nodi più difficili da sciogliere e le incertezze maggiori. Da un lato, Hamas non sembra disposta a cedere il proprio controllo su Gaza, come confermato sia dalla mancata menzione del suo disarmo nel testo del cessate il fuoco, sia dalle dichiarazioni di alcuni suoi funzionari.

Dall’altro, il governo Netanyahu – dove sono presenti forze oltranziste che spingono per la ripresa della guerra – continua a considerare il disarmo di Hamas una condizione imprescindibile per la fine delle operazioni militari nella Striscia, rischiando di portare non solo al mancato ritiro delle forze israeliane, ma persino a una ripresa dei combattimenti.

A ciò si aggiunge che anche la cosiddetta “fase 1” resta incompleta: non tutti i resti degli ostaggi deceduti sono stati restituiti, e l’ingresso degli aiuti umanitari continua a essere incerto e soggetto a blocchi. I fatti di domenica scorsa, che hanno provocato una nuova rottura del cessate il fuoco – con entrambe le parti che si accusano a vicenda – mostrano quanto la situazione resti fragile”. 

Quali scenari potrebbero emergere dai colloqui al Cairo sulla fase 2, in cui si discuterà la creazione di un “comitato indipendente di esperti” per gestire il territorio? È realisticamente possibile arrivare a una soluzione concreta?

“Anche su questo aspetto rimangono molte incertezze. Il comitato tecnocratico dovrebbe includere tra i 12 e i 16 ministri palestinesi de facto, con il compito di gestire le questioni amministrative e civili nella Striscia sotto la supervisione del Board of Peace, un organismo internazionale presieduto da Trump e co-guidato dall’ex Primo Ministro britannico Tony Blair, insieme ad altri leader e rappresentanti che saranno annunciati nelle prossime settimane.

Tuttavia, restano aperti interrogativi su chi farà parte di questo comitato, dato che la lista dei nomi dovrà essere approvata da diversi paesi della regione, con agende e interessi diversi. Ma non solo: il comitato rischia di non prendere in considerazione la vita politica interna palestinese, rischiando di ripetere passati fallimenti e di ridare potere ad un organo incapace di sostenere il processo di governance palestinese. Al momento, dunque, è difficile immaginare che i colloqui del Cairo portino a una soluzione realmente condivisa e operativa nel breve termine”.

Netanyahu ha annunciato la propria ricandidatura alle elezioni del 2026, esprimendo fiducia nella vittoria: quanto appare realistico questo scenario?

“Che Netanyahu si ricandidasse alle elezioni di ottobre 2026 era praticamente certo: lui, come Trump e altri politici internazionali, è parte di quella linea di politici per cui la campagna elettorale non si esaurisce con l’inizio del mandato. Ma la sua vittoria lo è decisamente meno: i sondaggi dal 7 ottobre in poi hanno mostrato uno scarso apprezzamento da parte dell’opinione pubblica, se non in casi eccezionali come l’uccisione di Yahia Sinwar e di altri capi di Hamas, che ne hanno aumentato la popolarità.

Sempre secondo i sondaggi, anche i partiti della sua coalizione si vedono ampiamente sconfitti nelle prossime elezioni, in particolar modo quelli di Itamar Ben-Gvir, Otzma Yehudit, e di Bezalel Smotrich, Sionismo Religioso, che non dovrebbero proprio oltrepassare la soglia di sbarramento.

Netanyahu rimane però un mago della politica, capace di cambiare le narrative e assicurarsi il favore del suo elettorato: basti pensare che prima della firma del cessate il fuoco Netanyahu sosteneva pienamente la continuazione dei bombardamenti su Gaza – arrivando perfino a sostenere che il ritorno degli ostaggi fosse un obiettivo secondario nella guerra, cosa che ha scioccato buona parte della società israeliana – mentre lunedì scorso alla Knesset ne ha celebrato con Trump la firma, prendendosene i meriti. Ma è difficile pensare che, questa volta, la sola abilità politica di Netanyahu possa bastare a ricucire le fratture di un paese che lui stesso ha disilluso, diviso e sfiduciato”.

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