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Guerra in Medio Oriente, quanto può durare la calma nei mercati?
Dopo la recente escalation in Medio Oriente, iniziata con l’attacco di Israele al programma nucleare e alla leadership militare iraniana e proseguita con l’intervento diretto degli Stati Uniti, che nel fine settimana hanno colpito tre siti nucleari in Iran, i mercati finanziari restano fortemente concentrati sugli sviluppi geopolitici. È corretto considerare gli Stati Uniti coinvolti in un conflitto su vasta scala, o si è trattato di un solo intervento circoscritto? Molto dipenderà da come l’Iran deciderà di reagire.
Nel frattempo, il conflitto tra Israele e Iran prosegue e Teheran appare in una posizione di debolezza: i suoi principali alleati, Cina e Russia, offrono solo un sostegno limitato e le sue forze armate sono state indebolite dagli attacchi israeliani contro installazioni militari e figure governative di rilievo. Il Presidente Trump ha persino evocato l’ipotesi di un cambio di regime sui social media, ma negli Stati Uniti non c’è oggi la volontà di un intervento paragonabile a quanto visto in passato in Afghanistan o Iraq. Come ha sottolineato il vicepresidente JD Vance, «Non siamo in guerra con l’Iran. Siamo in guerra con il programma nucleare iraniano. Non intendiamo impegnarci in un conflitto prolungato, né dispiegare truppe sul terreno». L’Iran, che sta prendendo di mira asset statunitensi nella regione, rischia però di innescare ulteriori rappresaglie da parte di Washington.
Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha dichiarato: «Al momento non sono previste operazioni militari contro l’Iran, a meno che non attacchi l’America o i suoi interessi. In quel caso, dovranno affrontarne le conseguenze». I mercati finanziari hanno reagito con relativa calma a questi sviluppi: si è osservata una lieve corsa verso asset rifugio, con un rafforzamento del dollaro USA, ma senza significativi cali dei listini azionari. Anche il prezzo del petrolio è salito, senza però superare la soglia dei 100 dollari al barile né toccare livelli tali da compromettere la propensione al rischio complessiva. Secondo i dati di lunedì 23/06 mattina, il Brent quota 78,29 dollari al barile, in rialzo di poco più del 4,5% da inizio anno e del 22% solo nell’ultimo mese.
Resta comunque al di sotto della media di 79,85 dollari registrata nel 2024 e – prima delle recenti ostilità – le previsioni indicavano un possibile calo dei prezzi, in linea con l’abbondante offerta e il rallentamento della domanda globale. I principali rischi per i mercati finanziari restano legati all’andamento del prezzo del petrolio e alla possibilità di un’escalation nel caso in cui l’Iran dovesse chiudere lo Stretto di Hormuz, attaccando con mine o missili le navi in transito. Lo Stretto di Hormuz è infatti una rotta cruciale per le forniture petrolifere globali: nel 2024 ha visto transitare circa 20,3 milioni di barili al giorno, pari a circa il 20% del consumo mondiale di greggio.
L’Iran esporta da solo 2 milioni di barili al giorno lungo questo passaggio — soprattutto verso la Cina — mentre da Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Qatar passano complessivamente circa 20 milioni di barili al giorno. Inoltre, dallo Stretto transita anche circa il 20% delle forniture globali di GNL. È probabile che la Quinta Flotta della Marina statunitense, basata in Bahrein, impedirebbe la chiusura completa della rotta, ma inevitabilmente ci sarebbero interruzioni nei flussi. Al momento non ci sono indicazioni concrete di minacce al trasporto marittimo, nonostante il parlamento iraniano abbia approvato una risoluzione — puramente consultiva e non vincolante — per la chiusura dello Stretto. L’Iran rischierebbe infatti di attirare la reazione di Stati Uniti e Cina se dovesse interrompere le catene di approvvigionamento del greggio, danneggiando così anche la propria economia.
Finché lo Stretto di Hormuz rimarrà aperto al transito, il prezzo del petrolio dovrebbe mantenersi su livelli contenuti, seppur con un premio al rischio incorporato che rende improbabile un ritorno alle quotazioni di inizio maggio. È importante ricordare che il panorama petrolifero globale è molto cambiato negli ultimi 20 anni, anche grazie all’ascesa dello shale oil statunitense. Sebbene eventuali problemi nello Stretto di Hormuz comporterebbero comunque rischi di rialzo per il prezzo del greggio, l’impatto sull’economia mondiale sarebbe probabilmente meno severo rispetto alle crisi passate. Oggi gli Stati Uniti sono il primo produttore mondiale, con il 22% della produzione globale di petrolio, seguiti dall’Arabia Saudita (11%) e dall’Iran (4%, la cui quota è in gran parte destinata alla Cina).
Un incremento dei prezzi del petrolio potrebbe avere effetti economici più contenuti negli Stati Uniti di quanto accaduto in passato, ma aumenterebbe comunque le pressioni inflazionistiche e il rischio di un rallentamento nel ciclo di taglio dei tassi d’interesse nel corso dell’anno. Tornando allo scenario macro, continuiamo a operare in un contesto di elevata incertezza, ma possiamo trarre conforto dalla resilienza mostrata finora dai mercati finanziari — non solo di fronte ai rischi geopolitici, ma anche alla persistente incertezza legata al regime tariffario statunitense, destinata a diventare sempre più rilevante con l’avvicinarsi della scadenza per i negoziati fissata a luglio, in assenza di un ulteriore escalation in Medio Oriente
La storia insegna che i mercati riescono a gestire la volatilità geopolitica, a patto che gli shock abbiano un impatto contenuto sull’economia globale. Al momento il contesto rimane “fluido” e, sebbene le nostre prospettive restino costruttive, siamo consapevoli che — dopo il deciso rimbalzo seguito alle turbolenze di mercato innescate dai dazi in primavera — un eventuale deterioramento della propensione al rischio potrebbe facilmente provocare una pausa o un’inversione di tendenza del recente slancio.
*Investment Manager di Columbia Threadneedle Investments
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