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Obiettivo unire il centro moderato, anche Azione di Carlo Calenda per diventare la prima forza politica del Centrodestra
“Lo strapotere delle Big Tech e i rischi per la democrazia” il titolo. “Oggi le prime cinque Big Tech assieme – Nvidia, Microsoft, Apple, Alphabet, Amazon – sono arrivate a superare il Pil dell’area euro. Ma attenzione: ridurre tutto ai valori economici non basta, il potere dei giganti della tecnologia va ben oltre” l’occhiello.
La lettera al direttore de Il Corriere della Sera Luciano Fontana di ieri, domenica 19 ottobre, di Marina Berlusconi – firmato “L’autrice è Presidente di Fininvest e di Mondadori” – secondo molti attenti osservatori della politica, parlamentari o ex, ma anche sherpa di maggioranza e opposizione, è solo apparentemente una riflessione critica sul capitalismo globalizzato dominato ormai dai colossi di Internet ma, in realtà, cela una sorta di manifesto politico. In sostanza, la primogenita di Silvio Berlusconi – secondo molti osservatori attenti delle logiche dei palazzi del potere – si sta preparando a scendere in politica.
Non domani. Non settimana prossima. Ma nemmeno tra dieci anni. L’ipotesi più accreditata che è Marina Berlusconi possa decidere di impegnarsi in prima persona ponendosi alla guida di Forza Italia, fondato da suo padre nel 1994. Obiettivo unire il centro moderato, anche Azione di Carlo Calenda (non Matteo Renzi che ormai ha scelto l’alleanza con il Pd), per diventare la prima forza politica del Centrodestra superando alle elezioni politiche Fratelli d’Italia e diventando così la seconda donna presidente del Consiglio. La strategia di Marina è chiarissima: porsi in mezzo alla contrapposizione durissima e aspra tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein che polarizza lo scontro politico alzando in maniera elevatissima il duello destra-sinistra allontanando molti cittadini che si rifugiano nell’astensione.
Marina non vuole lo status quo, vuole riformare dall’interno l’Unione europea senza appiattirsi sul presidente Usa Donald Trump, ma è certamente distante anni luce dalle posizioni considerate estreme di Roberto Vannacci, vice-segretario della Lega, e anche di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia. Una linea moderata, riformista, non certo democristiana, che Antonio Tajani interpreta bene, ma che non riesce a spingersi oltre il 10-12%. Serve una donna, una Berlusconi, per fare il salto di qualità e portare la nuova Forza Italia, rassemblement centrista e moderato a essere il primo partito italiano. Non sarà facile competere con Meloni, ma certamente la prima figlia del Cav potrà contare, se davvero scenderà in campo, sulla potenza di fuoco delle televisioni Mediaset. E non è banale.
LA LETTERA DI MARINA BERLUSCONI AL DIRETTORE DE IL CORRIERE DELLA SERA
Caro Direttore, c’è un rumore di fondo che attraversa il nostro tempo: guerre, radicalismi, intolleranze, manipolazione digitale… Dentro quel rumore la libertà e la democrazia sembrano spesso voci isolate, ma sono le uniche che vale la pena continuare ad ascoltare. E sono voci che chi come noi fa informazione e cultura deve sostenere, proteggere, amplificare.
È anche per questo che la Silvio Berlusconi Editore, a un anno dalla nascita, dedica le sue nuove uscite a un tema decisivo: i rischi e i benefici della rivoluzione tecnologica e il suo rapporto col potere. E lo fa pubblicando tre libri contemporaneamente, cosa non comune. Tre prospettive radicalmente diverse, e credo significative, per comprendere il fenomeno BigTech. Quella di una ex-dipendente di Meta, che denuncia la spregiudicatezza di Mark Zuckerberg; quella di uno dei tecno-miliardari della Silicon Valley, che auspica la collaborazione strategico-militare tra Stato e colossi del web; e quella di un sociologo francese che già negli anni ’50 prevedeva una tecnologia capace di «progredire senza intervento umano».
Con queste parole, Jacques Ellul, in La Società Tecnologica, anticipava il presente. Oggi le prime cinque BigTech assieme – Nvidia, Microsoft, Apple, Alphabet, Amazon – sono arrivate a superare il Pil dell’area euro. Ma attenzione: ridurre tutto ai valori economici non basta, il potere dei giganti della tecnologia va ben oltre.
È un potere che rifiuta le regole, cioè la base di qualsiasi società davvero funzionante. Noi editori tradizionali paghiamo le tasse, rispettiamo le leggi, tuteliamo il diritto d’autore e i posti di lavoro – basti pensare che in Italia le piattaforme occupano appena un trentesimo dei lavoratori del settore. Eppure, quasi due terzi del mercato pubblicitario globale vengono inghiottiti dai colossi della Silicon Valley, che fanno esattamente il contrario: per dirla con il titolo del saggio firmato dalla ex-Meta Sarah Wynn-Williams, sono Careless People, «gente che se ne frega».
È concorrenza sleale bella e buona. Ben venga, dunque, il Digital Package varato dall’UE tra il 2016 e il 2024 a tutela degli utenti delle piattaforme. Per Donald Trump va smantellato, perché è un ostacolo: in teoria al progresso, più realisticamente al profitto, che, sia ben chiaro, è fondamentale: da imprenditore non sarò certo io a negarlo. Ma sono anche convinta che un mercato sia veramente libero solo quando risponde a regole. Non troppe e soprattutto giuste – in questo l’Europa spesso inciampa. Mi auguro davvero che sul digitale la Commissione non indietreggi, anche – e forse soprattutto – alla luce della enorme capacità di influenza culturale nelle mani di BigTech. Non è più solo un problema degli editori, riguarda tutti.
A differenza dei media tradizionali, le piattaforme prosperano in un far-west dove nessuno risponde di quello che ha scritto, l’importante sono i clic. E così si solleva la marea delle fake news, del linguaggio d’odio, del rifiuto delle opinioni diverse. In sintesi, il brodo culturale della polarizzazione e della radicalizzazione, in cui affoga purtroppo anche la politica.
L’intreccio tra politica e BigTech negli Stati Uniti è sotto gli occhi di tutti e porta enormi vantaggi a un Paese che della tecnologia ha bisogno per affrontare le sfide geopolitiche. Lo spiega bene il ceo di Palantir, Alexander Karp, nel suo La Repubblica Tecnologica. Ed è un legame cementato anche dalla convenienza. In cambio di un sistema normativo favorevole, i giganti del Tech mettono sul piatto generosi finanziamenti e i dati di miliardi di persone. La Wynn-Williams fa l’esempio del «progetto Alamo», con cui Facebook nel 2016 rese disponibili a Trump «i movimenti delle carte di credito, gli acquisti, i siti web visitati, l’auto guidata, la residenza» di 220 milioni di americani.
Lo sappiamo, ma è bene ricordarlo: questi colossi non sono più solo aziende private, sono attori politici. Con una differenza sostanziale rispetto a chi fa politica di mestiere: i padroni della Silicon Valley restano sempre al loro posto. Grazie a una buona dose di ipocrisia, sono passati dal wokismo al trumpismo con la disinvoltura di un cambio di felpa. Del resto, nell’era della polarizzazione si sbanda da un eccesso all’altro. Ma intanto libertà e democrazia rischiano di finire stritolate nella morsa degli opposti, che distrugge il dialogo e alimenta l’intolleranza.
È un pericolo che non si scongiura certo alzando barricate contro il progresso. Come dice Ellul, «non possiamo più mettere l’essere umano da una parte e gli strumenti dall’altra»: la rivoluzione digitale è ormai in ogni nostro gesto. E poi sarebbe anche sbagliato. La tecnologia ha portato enormi miglioramenti in molti aspetti della nostra vita, tanto che siamo disponibili a barattarne le comodità con i nostri dati personali, sottovalutandone le dirompenti conseguenze.
Eppure, davanti a certe derive inquietanti, la domanda s’impone: cosa possiamo fare? I regolatori devono garantire norme eque. La politica deve impedire eccessive concentrazioni di potere. Ma cosa può fare un editore per evitare che il treno deragli? Certamente non miracoli, ma può sempre dare un piccolo aiuto a chi vuole capire come è fatto, quel treno, in quale direzione corre. E dove la curva dei binari è più pericolosa.
Mi permetto una provocazione: e se proprio nell’era del «Muoviti veloce e rompi tutto» – il motto di Zuckerberg – ci trovassimo a riscoprire la forza lenta, ma costruttiva dei cari vecchi libri?
I libri sono da sempre efficaci anticorpi contro barbarie e totalitarismo, ma oggi assumono anche una funzione nuova: quella di anticorpi contro l’assottigliamento del pensiero imposto dallo smartphone, veri e propri strumenti di resistenza contro l’omologazione digitale.
Mi viene in mente Fahrenheit 451: nel 1953 Ray Bradbury immaginava un futuro dove un regime totalitario brucia i libri perché sono i migliori custodi della memoria, fanno ragionare la gente e quindi creano dissenso. Fortunatamente il presente è ben diverso – per lo meno nel nostro Paese – eppure, anche nel regime digitale, c’è sempre bisogno del racconto di un buon libro: ci rende più critici e consapevoli, meno vulnerabili alla manipolazione. La responsabilità principale di chi fa il mio mestiere, in fondo, sta tutta qui. Nel garantire che quel meraviglioso racconto possa continuare, con la massima libertà. Basterà? Non mi faccio illusioni. Ma almeno, nel mare dei social e dell’intelligenza artificiale, resterà qualche isola di saggezza e di intelligenza umana.
L’autrice è Presidente di Fininvest e di Mondadori
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