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Come gli artisti valorizzano la guerra

La guerra è un evento parte della natura umana da sempre. Ma l’evoluzione moderna della guerra, lo sviluppo della democrazia e la partecipazione dei media hanno reso ogni conflitto popolare. Dal Vietnam in poi ogni governo ha compreso come il conflitto debba essere venduto alla propria popolazione, specialmente se cittadini di nazioni democratiche occidentali. Gli artisti sono da sempre sensibili all’umore delle masse. Dopo tutto sono le masse che decretano il successo e, la conseguente ricchezza, di un artista.

Con l’avvento dei social media, e per inclusione l’era digitale, ogni artista ha imparato a valorizzare al massimo la sua “partecipazione” ad un conflitto. Estremizzando con un gergo finanziario, si può dire che ogni artista può decidere di valorizzare una guerra come un investitore finanziario: andando Long (scommettendo sulla guerra e lo stato che l’ha scatenata) o short (scommettendo contro la guerra e lo stato invaso o che sta perdendo). Ognuna delle due posizioni ha rischi e opportunità. Facciamo il punto.

Il tappeto rosso del festival di Venezia intriso di Sogni, Soldi e Sangue

Il Festival di Venezia è storicamente un evento “caldo”, al pari della prima del Teatro alla Scala, per le manifestazioni popolari e populiste. Per semplice visibilità o per convinzione, chi protesta a questo evento riesce a portarsi a casa il suo minuto di celebrità, come soleva dire Andy Warhol.

Oggi con i social media un singolo minuto di celebrità può essere amplificato all’infinito. La guerra Israelo-Palestinese è il conflitto che gli artisti hanno deciso di valorizzare al festival di Venezia. Dopo tutto è un evento mediatico rilevante e “fresco”, rispetto alla guerra Ucraino-Russa. La guerra in Ucraina è apparentemente più complessa da capire rispetto a quella palestinese, e gli artisti non sono famosi per essere fini studiosi geopolitici, seguono l’umore delle masse che li rendono ricchi e famosi.

La prima azione Pro-Pal è stata un comitato di artisti liberi e fieri che si oppongono alle scelte di politica estera del governo Netanyahu. Molti tra attori e attrici italiani hanno aderito. Dopo tutto era un’opportunità ghiotta: firmare un “manifesto” senza particolari responsabilità, rivendendosi, presso il popolo, come “uno del popolo che si batte contro le ingiustizie”.

Poi il comitato “Pro-Pal” ha alzato la posta, chiedendo agli organizzatori dei festival di cancellare l’invito a Gal Gadot e Gerard Butler: attori principali del “In the Hand of Dante”. Entrambi gli attori principali hanno manifestato aperto e totale supporto alle politiche israeliane. La richiesta dei leader del comitato “Pro-Pal” ha spaccato il comitato stesso.

Se prima tutti gli artisti italiani del comitato erano in posizione short, puntando quindi contro la guerra e Israele, per un guadagno immediato, in termini di visibilità, le posizioni sono mutate. Gli artisti con maggior peso mediatico (potremmo dire più famosi e ricchi) hanno deciso di andare long. Da Verdone a Toni Servillo sono numerosi gli artisti famosi che hanno cambiato posizione, dopo tutto il Festival di Venezia dura solo pochi giorni, e il cittadino medio ha una memoria piuttosto ridotta.

Mentre il mondo della finanza, i produttori cinematografici e le major internazionali hanno una memoria lunga, e la partecipazione finanziaria vede spesso anche gruppi o imprenditori che supportano la causa israeliana. Forse gli artisti che si sono riposizionati long, neutrali ma pronti a far finta di nulla sulla politica estera israeliana, preferiscono non inimicarsi futuri contratti.

La guerra Ucraino-Russa dove Long e Short si confondono

Di primo acchito tutti gli artisti si sono posizionati long, scegliendo di schierarsi senza se e senza ma contro Putin e la sua invasione. Dopotutto il mondo artistico ha sempre supportato la visione americana individualista. A questo si aggiunga che 12 anni di Woke Economy hanno trasformato l’industria del cinema e delle arti visive: i casi di film, serie e addirittura pubblicità, che si sono approfittate del fenomeno Woke sono innumerevoli.

Tuttavia gli artisti europei hanno subito scommesso long contro Putin, specialmente supportati da un America Woke a guida Biden. Tutta l’intelligentia radical chic di New York, i liberali di sinistra, erano contro Putin. Poi le cose sono cambiate.

Con l’avvento di Trump e un radicale ripensamento della politica estera americana, anche gli artisti hanno sentito che l’aria era cambiata, e che i finanziamenti statali o federali per le loro opere (in ultima istanza decisi anche dal governo di Trump), potevano essere influenzati dalla nuova visione politica americana.

Se chi, tra Jude Law, ha deciso di investire lungo, (o farsi contrattare) con il film il cui stile e narrativo implica una visione critica, ma moderata, su Putin e il suo “cerchio d’oro”, c’è chi scommette short. Restando in USA ha fatto notizia la scelta short di Woody Allen che, da remoto, interviene alla settimana internazionale del cinema di Mosca.

A Kiev è subito scoppiato il caso mediatico. Dopo tutto Allen è un artista (attore e regista) famoso, parte del mondo liberal della Grande Mela. Kiev ha condannato la partecipazione del noto regista e attore, definendo il suo intervento “una vergogna e un affronto alla memoria degli artisti e cineasti ucraini uccisi o feriti durante l’invasione russa” arrivando a cancellare spettacoli creati sulla base delle opere del regista come “Riverside Drive”.

Allen ha replicato a Kiev dicendo che “Per quanto riguarda il conflitto in Ucraina, credo fermamente che Vladimir Putin abbia completamente torto. La guerra che ha causato è terribile. Ma, indipendentemente da ciò che fanno i politici, non penso che interrompere il dialogo artistico sia mai un buon modo per aiutare.”
Per quanto la scelta di Allen possa andare in controtendenza è bene considerare che shortare sul conflitto potrebbe avere ritorni finanziari positivi in futuro. È bene considerare che la Russia, e ancor di più l’alleato cinese, hanno di recente iniziato a finanziare differenti programmi cinematografici e media.

Allen di suo non è l’unico ad aver shortato il conflitto a favore della Russia. Non dimentichiamo tutti gli artisti italiani come Albano, Pupo che non fanno segreto di essere stati negli anni molto apprezzati dal popolo russo o di altre nazioni ex sovietiche come il Kazakistan. Di recente Albano, con la collega cantante e presentatrice Mediaset Iva Zanicchi, hanno replicato alla loro presenza in Russia dichiarando che “portavano un messaggio di pace”.

Russia, soldi e artisti occidentali

Per comprendere se le azioni short o long siano in qualche modo legate a aspetti finanziari, come la sponsorizzazione di film, serie o degli artisti stessi in concerti, è bene osservare se negli ultimi anni la Russia, o le aree di influenza di questa nazione, siano stati in qualche modo attivi nel mondo occidentale in particolar modo nell’area artistica.

Uno dei concetti più rilevanti per comprendere l’influenza finanziaria russa in Occidente è l’Artwashing. Attivo in particolare a Londra, dove riciclare soldi è piuttosto semplice tramite paradisi fiscali come Jersey o Guernsey, sono numerose, come riporta il Guardian, le operazioni di beneficenza e personal branding iniziate da oligarchi russi che hanno scelto di spendere parte del loro tempo nella ricca e indomita Londra, capitale del russo-fobico (a parole) Regno Unito.

Come spiegato dal Guardian “l’arrivo dei super-ricchi russi nel mondo dell’arte occidentale fu annunciato nel maggio 2008, quando Roman Abramovich, fino ad allora non noto come collezionista, acquistò Benefits Supervisor Sleeping di Lucian Freud per 17 milioni di sterline da Christie’s a New York, seguito la sera successiva dall’acquisto del Trittico di Francis Bacon per 43 milioni di sterline da Sotheby’s.

Gli acquisti avvennero una settimana dopo che Putin era passato da presidente a primo ministro, estendendo il suo potere oltre i due mandati consecutivi consentiti dalla costituzione russa. Il mercato dell’arte, in gran parte non regolamentato, offre un modo semplice per spostare denaro fuori dal paese.” Come scrive il Guardian.

Lo stesso Abramovich che aveva oltre 5$ miliardi in un Trust nel paradiso fiscale e “lavatrice finanziaria” del Jersey. Comprensibile quindi come gli artisti occidentali da anni vedano i ricchi russi, o imprenditori euroasiatici dell’ex Unione Sovietica, come un’opportunità di ricchezza per concerti, finanziare film o altre opere d’arte.

La ricchezza russa conferma anche la ragione per cui Albano, con Iva Zanicchi, di recente siano andati in Russia. Non è stato dichiarato da Albano il suo cachet russo. Ma il quotidiano Money rivela che per ogni singola presenza in Rai l’artista riceveva un cachet tra i cache tra i 50 e i 100.000 euro. È plausibile pensare che, per una sua apparizione in una nazione così contestata come la Russia, l’artista non sia stato da meno, in quanto richiesta economica.

Andare short sulla Russia, partecipando ad eventi, ha anche un valore più profondo, nel tempo. Gli Euroasiatici, Russia in testa, sono popoli orgogliosi con una memoria storica. E in un momento come questo, in cui la Russia, e il suo leader politico, sono criticati in tutto il mondo, coloro che invece denotano neutralità o vicinanza, con atti, gesti o parole, è plausibile che avranno sempre un posto nel cuore di questi popoli.

Ovviamente quest’ultimo aspetto di “fedeltà” potrà essere confermato solo in futuro quando, una volta cessato il conflitto, la Russia sarà riammessa nel “tavolo occidentale” e quindi sarà possibile osservare quali e quanti artisti occidentali saranno richiamati pubblicamente per le loro performance nella madre Russia.

Israele e Palestina. Long o short?

Se investire long con la Russia ha una logica finanziaria comprensibile, lo stesso tema deve essere compreso nel conflitto Israelo-Palestinese. Shortare il conflitto prendendo le difese dei palestinesi di Gaza o della Cisgiordania in apparenza paga in popolarità.

Dopo tutto l’evento mediaticamente amplificato dai telegiornali e dai giornalisti occidentali sul campo (sul campo, ma fuori dal territorio di Gaza, dove i giornalisti sono fatti bersaglio giornaliero dalle truppe israeliane) aiuta la massa a comprendere le ragioni dei due combattenti.

Con oltre 50.000 morti civili tra i palestinesi, in maggioranza donne e bambini, è facile comprendere come l’Occidente democratico, sensibile e politicamente corretto, possa schierarsi a favore di Gaza. Ovviamente gli artisti, da sempre sensibili agli umori del popolo che li acclama, rendendoli eroi del popolo, hanno trovato naturale schierarsi a favore della Palestina.

Ancora in questi giorni una nuova flotta “pro Pal” sta issando le bandiere facendo rotta verso Gaza, intenzionata a forzare il blocco. Tra gli ospiti “illustri” della flotta c’è la ex adolescente ed esperta ambientalista Greta Thunberg, che dopo aver scoperto di essere stata abbandonata dai media, sta cercando di avere una seconda popolarità denunciando la guerra, in quanto fattore che contribuisce all’inquinamento.

Sono presenti anche politici di sinistra (i politici sono sensibili come gli artisti agli umori del popolo, specie sotto elezioni) che denunciano le azioni dei leader israeliani. In apparenza quindi gli artisti che supportano la Palestina hanno scelto il cavallo giusto da cavalcare o su cui puntare. Tuttavia, quando si è cominciato a chiedere azioni decise, come il divieto di accesso di Gal Gadot e Butler a Venezia, molti artisti italiani, quelli più famosi e ricchi, si sono sfilati dalle proteste.

In apparenza una scelta impopolare ma si deve anche considerare la posizione Long. La Palestina non ha particolari esperienze in aver finanziato film o altre opere d’arte di successo. Al contrario Israele, e i suoi simpatizzanti, hanno una lunga tradizione di supporto diretto o indiretto al cinema ed altre arti.

Come ben spiegato dal quotidiano israeliano Times of Israel (TOI) “Israele ricopre un ruolo più grande della vita stessa sul grande schermo americano. Dai kolossal come Exodus del 1960 con Paul Newman, fino alla commedia irriverente di Adam Sandler You Don’t Mess With the Zohan del 2008, i film di Hollywood che parlano dello Stato ebraico possono suscitare una serie di reazioni contrastanti”.

Tuttavia il nuovo libro Hollywood and Israel: A History, scritto dai professori Tony Shaw e Giora Goodman getta una nuova luce sulle relazioni tra Hollywood e Israele. Continua il TOI intervistando Goodman “Non si tratta solo della produzione cinematografica, ma anche di filantropia, diplomazia e attivismo da parte delle celebrità: l’intero tipo di relazione che può instaurarsi tra la capitale mondiale dell’intrattenimento e uno Stato, Israele. Si va dal bacio appassionato tra Paul Newman e la sua amante americana presbiteriana, l’infermiera Kitty Fremont (Eva Marie Saint), sulla cima del Monte Hermon in Exodus, alla visione mozzafiato degli zombi che invadono Gerusalemme in World War Z, una drammatizzazione di Brad Pitt del bestseller apocalittico di Max Brooks, figlio dell’amato regista ebreo Mel Brooks”.

Come spiega Times of Israel, descrivendo il contenuto del libro “A partire dagli anni 1920 e 1930, il libro analizza un numero ancora esiguo ma in crescita di film hollywoodiani che sostenevano il sionismo e si opponevano a Hitler. Dopo che Israele ottenne l’indipendenza, divennero di moda i kolossal biblici a tema cristiano come Ben Hur, sebbene il film biblico forse più famoso in assoluto fosse tratto dall’Antico Testamento: I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille, girato nell’Egitto di Gamal Abdel Nasser. Il film uscì nel 1956, anno della crisi di Suez, e il governo di Nasser lo vietò per la sua presunta trama filosemita e anti-egiziana, uno dei tanti boicottaggi arabi contro film o attori ritenuti favorevoli al vicino sionista. Il soft power, inclusa la hasbara — la strategia diplomatica e di advocacy di Israele — riceve un’analisi approfondita nel libro. Oltre a Kollek, tra i primi referenti israeliani a Hollywood vi furono Moshe Pearlman, a capo del dipartimento di pubbliche relazioni all’interno delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e del ministero degli Esteri, e Meyer Weisgal, presidente del Weizmann Institute of Science, che convinse il suo amico, il regista Otto Preminger, a visitare Israele per Exodus”, conclude Times of Israel.

Per quanto il libro, uscito nel 2022, non sia particolarmente noto in Italia, permette di analizzare, in modo neutrale, come Hollywood sia un territorio di confronto tra i pro Israele e i pro Palestina. Con questi ultimi che, avendo una scarsa capacità di lobby, sia economica che mediatica, si ritrovano ad essere sostanzialmente di scarso interesse per attori e in generale artisti che ambiscono ad emergere come nuove icone delle masse o a veder finanziati i loro progetti artistici.

Considerando quindi la presenza di un soft power israeliano manifesto, come spiegato dal quotidiano nazionale Times of Israel, viene facile comprendere come tanti artisti italiani, che inizialmente avevano firmato il manifesto pro Palestina, abbiano, in seguito, declinato e ritirato le loro posizioni.
Forse vedono lungo e preferiscono investire sul loro futuro artistico ed economico, piuttosto che sulla memoria, labile e breve, delle masse “Pro-Pal”. Dopo tutto i conflitti finiscono, ma la finanza resta.

Furono i romani a coniare il termine Pecunia non olet. Gli artisti, sin dai tempi dell’impero romano, hanno fatto di questo motto popolare un loro diktat di vita, anche se di rado lo ammettono pubblicamente.
Dopo tutto in Russia, Albano è andato per “portare un messaggio di pace”, non per soldi.

Rinnovo Patente? Facile ed Economico

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