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Marcello Veneziani ha lanciato un sasso nello stagno, che ha raccolto una reazione composta da parte del Professor Franco Cardini e una aspra risposta da parte del Ministro della Cultura, Giuli.
Quando un intellettuale d’area scrive su un giornale di area una critica di merito nei confronti del governo, a parere di chi scrive merita l’attenzione di merito, che va valutata nel contenuto, perché in esso vi può essere il vulnus di un problema che chi siede nel Consiglio dei Ministri avrebbe l’opportunità di prendere in considerazione.
A noi non interessano i motivi che hanno spinto una delle menti più lucide nel panorama pre-politico e ideale a dire che “il governo ha prodotto solo fuffa“, lamentando una carenza culturale che Franco Cardini, il più grande storico contemporaneo, ha rilanciato duramente, definendola da “elettroencefalogramma piatto”. Non ci sembrerebbe corretto deviare l’attenzione da un “grido di dolore”, lanciato da due personalità di grande spessore, che si sia o meno d’accordo con loro.
Perché accogliere con sospetto o, addirittura, con rabbia, la critica da destra e non cercare di farne tesoro, per migliorare? Se ci fermiamo all’accusa di “nemichettismo” per una mancata nomina, manterremmo lo stagno completamente fermo, per timore di compiere un peccato di “lesa maestà”. Eppure Veneziani da un lato, Cardini dall’altro, ci fanno ragionare: in oltre tre anni, difficili, in cui Giorgia Meloni ha dimostrato una capacità riconosciuta e consolidata di saperci fare, sia sul piano nazionale che internazionale, pur di fronte alle policrisi (varie crisi) di cui scrive il Prof. Giulio Tremonti, il governo cos’ha prodotto che possa essere ricordato come qualcosa di destra?
Sull’onda del movimento MAGA di Donald Trump, che ha già stravolto gli storici equilibri globali, nel bene o nel male, Meloni avrebbe la tempra e il coraggio di elevare un pantheon culturale omogeneo, non facendo corrispondere diavolo e acquasanta, valorizzando ciò che non manca nel Belpaese, ovvero le persone che avrebbero qualcosa da dire, idee da suggerire, voglia di spaccare il muro della decadenza e della presunta, quanto oramai tremolante superiorità morale delle sinistre, che sa parlare solo di gay, fascismo e migranti, senza cadere in questa continua e pedante dialettica paludosa.
Quest’ultima non si supera nella timida difesa delle ceneri, quanto nel recupero del grande bagaglio della miglior tradizione del pensiero della “destra” europea. Andare oltre la “sindrome del fascismo immaginario permanente”, che è l’arma usata da molti progressisti, per soffocare ogni afflato che sappia odore di conservazione alla Roger Scruton, di patriottismo alla Joseph De Maistre, di religiosità alla S. Tommaso d’Aquino, di libertà alla Leo Longanesi, Mino Maccari, Curzio Malaparte, di controrivoluzione alla Primo Siena, di affermazione dell’identità classico-cristiana alla Silvano Panunzio o Giovannino Guareschi, richiamando Romano Amerio e Augusto del Noce, di filosofia alla Giambattista Vico, di amore per il bello e il giusto alla Edith Stein, di verità oggettive, recuperando il pensiero nobile di Spengler, Burke e Jünger, di comunità di destino come la intendeva Belloc, di moneta del popolo attualizzando il Prof. Giacinto Auriti, di senso comunitario e critica del politicamente corretto alla Michel Onfray o Alain Finkielkraut o Mark Twain.
Forse occorre andare oltre, nei fatti, più che con le parole, a quella forma di senso di colpa per ciò che l’intellighenzia ha definito universalmente come “male”, per dimostrare il valore costante di un orizzonte valoriale omogeneo, inossidabile, certo, non negoziabile, in una weltanschauung (visione del mondo) sempre verticale, nei confronti di una profonda spiritualità, mai omologante o egualitarista.
Giovanni Raboni, autore di un lungo articolo intitolato, “I grandi scrittori? Tutti di destra” (con buona pace di Scanzi) uscito il 27 marzo del 2002 sul Corriere della Sera e ripubblicato dalla casa editrice De Piante con la prefazione di Luca Daino e una documentatissima postfazione di Franco Cardini, dice che in Italia c’è la convinzione che gli intellettuali siano tutti, come si dice a Roma, “de sinistra”. Alle volte si ha l’impressione che questo stereotipo fasullo abbia convinto anche i politici di destra.
E invece è il contrario, a essere vero: «Non pochi, anzi molti, moltissimi tra i protagonisti o quantomeno tra le figure di maggior rilievo della letteratura del Novecento appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra – dalla più illuminata alla più retriva, dalla più conservatrice alla più eversiva, dalla più perbenistica alla più canagliesca – che si sono intrecciate o contrastate o sono semplicemente coesistite nel corso del Ventesimo secolo» (Raboni 2022, p. 24).
Segue un elenco, dal quale vengono espunti i già citati: Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, D’Annunzio, Drieu La Rochelle, Eliot, Forster, Gadda, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Landolfi, Thomas Mann, Marinetti, Mauriac, Maurras, Montale, Montherlant, Nabokov, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Pound, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, Yeats. Va da sé che l’elenco è approssimato, e di molto, per difetto. C’è sicuramente anche Indro Montanelli.
Perché a destra c’è la smania di definirsi per forza liberali, nonostante l’immenso pantheon a disposizione? Potrebbe far confusione perché anche a sinistra si dicono riformisti e liberali, creando una specie di intercambiabilità fra schieramenti, di cui l’On. Soumahoro, di AVS, che vorrebbe candidarsi col centrodestra, è l’esempio emblematico.
Se, fino ai primissimi anni del nuovo secolo era magari utile spiegare, specie agli italiani, che “intellettuale di sinistra” non è una tautologia, adesso queste discussioni non hanno più senso, perché ormai la distruzione del mondo dei valori immateriali si è compiuta e solo la tradizione può riprendere il cammino fermato dal Nulla. Nella tradizione si trovano le risposte di un’autentica “cultura di destra”, capace di tramandare il meglio degli scrittori del passato, per formulare assunti adeguati al mondo contemporaneo.
Perché il grande scrittore novecentesco è quasi sempre di destra? Raboni non dà una vera e propria risposta ma un indizio sì: c’è un legame, dice, che sfiora il paradosso, tra progressismo politico e conservatorismo della scrittura e, di converso, c’è un legame tra passione sperimentale e sfiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” (ivi, p. 28).
L’indizio potremmo svilupparlo così: la grande letteratura ha come premessa un sostanziale disinteresse per la dimensione politica dell’esistenza, perché la grande letteratura è sincera, dice la verità, e la verità è ostile alla vita, alla società e al mondo. La verità è un terreno instabile e non edificabile. La verità richiede una spietatezza intellettuale e l’abbandono delle certezze consolatorie del progressismo, che trasforma ogni desiderio in diritto, a costo di scontrarsi con la realtà, l’etica e la biologia, per costruire un inconsistente fortino dell’anarchia.
Uno scrittore che Raboni avrebbe classificato tra «i transfughi della sinistra» (ivi, p. 25) – i quali, comunisti da ragazzi, sono poi diventati liberali – Milan Kundera, pensa che la decadenza della cultura europea si riconosce dal fatto che gli intellettuali sono diventati incapaci di fronteggiare la politicizzazione dell’esistenza. Chi scrive, invece, ritiene che la logica del profitto distrugga gradualmente ogni forma di pensiero, per giungere a quella che già si chiama “era della post-notizia”, in cui l’ AI seleziona ed elaborera per conto dell’uomo la realtà visibile.
Il compito degli scrittori, disse una volta Kundera, non è impegnarsi nella lotta politica, bensì proteggere la cultura dalla stupidità della politica. E se fosse anche lotta politica, come sostenevano Adriano Romualdi e Julius Evola, perché il pensiero che non si trasforma in azione non serve?
Il sasso nello stagno lanciato da Veneziani e ripreso da Cardini, potrebbe essere compreso fino in fondo nella necessità urgente di una meta-politica che costituisca il fondamento della formazione delle classi dirigenti. Essa non è una caserma né una chiesa, ma conoscenza e adesione all’ identità italiana ed europea che hanno un’alfa ed un omega, nelle variegate sfumature. Soprattutto non deve rincorrere alcunché della Sovversione dell’Ordine, pena l’ aurea mediocritas, ovvero “aurea moderazione” o “aurea via di mezzo”, locuzione latina del poeta Orazio (Odi 2,10,5).
Nella lingua latina il termine mediocritas significa “stare in una posizione intermedia” tra l’ottimo e il pessimo, tra il massimo e il minimo, divenendo né carne né pesce. La mediocritas è definita dal poeta “aurea”, ovvero la migliore condizione che si possa immaginare, così come l’oro è il più apprezzabile dei metalli. Questa concezione esistenziale si ispira alla filosofia epicurea, che invitava l’uomo a godere dei piaceri della vita senza abusarne (edonismo).
Un esempio? L’ immigrazione di massa. Bisogna dire sì “perché ce lo chiede l’Europa”, ma, se sei sovranista, la devi volere solo se regolare, per evitare accuse di razzismo da sinistra. E si parte già sulla difensiva. Perciò se, poi, non si integrano, che facciamo? Remigrazione! Sapendo che è solo uno slogan suggestivo nella UE, non negli USA di Trump…quindi su questo tema potrebbe esserci un impegno politico per fare qualcosa di concretamente e tangibilmente di destra, cioè MAGA, anche in Italia, nonostante i diktat o i “paesi sicuri” secondo Bruxelles, che esclude la Libia, destabilizzata dall’uccisione di Gheddafi, che è il canale d’accesso preferenziale di tutta la peggior feccia africana.
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