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Il commento
Ci sono stagioni della politica in cui il dibattito sembra ridursi a un gioco di specchi, a una contrapposizione forzata che polarizza il discorso pubblico. Da una parte e dall’altra si costruiscono schieramenti, si accentuano differenze, si moltiplicano slogan. In questo scenario, il centro sembra svanire: un luogo evocato, ma sempre più frazionato, in cui personalismi e piccoli calcoli hanno sostituito l’ambizione di una visione. È qui che sorge, quasi naturale, la provocazione di immaginare una costituente liberale e federalista.
Non un partito in più, non l’ennesimo contenitore che raccoglie i delusi, ma un’operazione culturale e politica che riporti al cuore del dibattito due tradizioni che l’Italia conosce bene, ma che da troppo tempo non riesce a valorizzare insieme. Il liberalismo, che nel nostro Paese ha avuto interpreti profondi e minoritari, è sempre stato una cultura inclusiva, capace di accogliere sensibilità diverse: dal cattolicesimo liberale al socialismo riformista, fino alle declinazioni più conservatrici. E il federalismo, che ha ispirato esperienze amministrative e comunitarie, non è mai stato negazione dell’unità, bensì esaltazione delle differenze come ricchezza da mettere a sistema.
Liberali e federalisti non escludono: includono. Sono culture che aprono spazi, che creano ponti, che insegnano la responsabilità della scelta e dell’intrapresa, senza rinnegare il legame con la comunità e i territori. Per questo un’area liberale-federalista potrebbe oggi rappresentare un riferimento per quelle classi sociali che non si riconoscono nella polarizzazione, e che vivono la propria identità in forme nuove, trasversali. Non più ceti chiusi e ben definiti, ma individui, professionisti, imprenditori, giovani, amministratori locali, donne e uomini che sentono di non avere una casa politica.
C’è però un altro elemento che rende urgente questa riflessione. In Italia ci si innamora troppo spesso di modelli che nulla hanno a che vedere con il nostro sentire storico e politico. Si guarda a formule importate, a narrazioni costruite altrove, a ideologie nate in contesti lontani dalle nostre comunità. Si cita ciò che accade oltre Atlantico o nel Nord Europa come se fosse la bussola unica, dimenticando che siamo stati proprio noi, con le nostre esperienze e con le nostre lotte, a insegnare ad altri mondi che cosa siano la libertà, la sussidiarietà, l’autonomia dei corpi intermedi e la dignità delle comunità. Non il contrario. La nostra storia liberale e la nostra tradizione federalista hanno nutrito radici profonde in Europa, eppure oggi sembrano ridotte a reliquie, mentre si inseguono modelli che non ci appartengono culturalmente né filosoficamente.
Riscoprire la vocazione liberale e federalista italiana non significa chiudersi, ma al contrario riaprire il respiro del Paese verso il suo destino naturale: un’Italia capace di essere moderna senza rinnegare se stessa, inclusiva senza uniformarsi, europea senza subalternità. Un’Italia che ricorda che la libertà non è concessione di un potere superiore, ma diritto originario della persona; che l’autonomia dei territori non è minaccia all’unità, ma condizione per rafforzarla; che il pluralismo non è debolezza, ma forza civile.
Ecco perché quella che nasce come suggestione non deve restare un semplice esercizio intellettuale. È piuttosto l’inizio di una proposta, di un’alternativa che può trovare spazio concreto. Un seme capace di unire mondi oggi parcellizzati, che comunicano attraverso linguaggi e strumenti diversi, ma che avrebbero finalmente un punto centrale di riconoscimento: la grande parola della responsabilità. La responsabilità dell’intrapresa, della libertà, dell’individuo, della comunità.
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