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Pubblicato da TerraRossa Edizioni, il romanzo di Ruol è…
Con Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, edito da TerraRossa nella collana Sperimentali, Michele Ruol si è guadagnato un posto nella cinquina finalista del Premio Strega 2025. Proposto da Walter Veltroni, che per la prima volta ha scelto di candidare un’opera al premio più prestigioso della narrativa italiana, il romanzo ha raccolto consensi unanimi, conquistando anche il Premio Giuseppe Berto, il Megamark, il Mario La Cava e l’inclusione nelle selezioni Campiello, Mastercard Esordienti, POP, Mandrarossa e Giorgione. Un caso editoriale in piena regola, tradotto già in diverse lingue europee e sudamericane.
Veltroni ha motivato la proposta con parole che sintetizzano alla perfezione la forza devastante del libro: «Tutto, in un istante, cambia senso e direzione, perde peso, si fa vuoto, puro vuoto». È quel vuoto che Ruol sceglie di raccontare, spostando il baricentro narrativo dai protagonisti agli oggetti, in un inventario che si fa mappa emotiva e grammatica del dolore.
La trama è semplice quanto lacerante: una coppia – Madre e Padre – perde i figli, Maggiore e Minore, in un incidente. Ciò che resta è una casa colma di assenze e memorie. Gli oggetti diventano voci narranti, testimoni muti di un tempo perduto. «La foto dei ragazzi sul tavolino nell’ingresso è la stessa che avevano usato per la lapide», così si apre il libro, con una cornice d’argento che ci introduce al primo di novantanove frammenti, ciascuno intitolato a un oggetto, a una cosa apparentemente inerte che trattiene brandelli di vita.
L’opera si struttura come una sequenza di quadri che attraversano passato e presente, colmando di senso i vuoti lasciati dall’evento traumatico. In questi scarti temporali, Ruol riesce a rivelare le pieghe intime del rapporto tra i due genitori. Se Padre si dissolve nel silenzio e nella paralisi, incapace di riprendere il proprio lavoro, Madre cerca un contatto attraverso ciò che resta: oggetti, foto, file sul computer del figlio scomparso. In uno dei momenti più intensi del romanzo, leggiamo: «In Padre il dolore si era preso spazio lentamente. Si era allargato, fino a quando aveva coperto tutto. Il suo corpo, i suoi pensieri, quello che gli stava intorno».
La scrittura di Ruol è essenziale, affilata, quasi chirurgica. Ogni parola è scelta con cura, ogni pausa è necessaria. È una lingua della sottrazione, capace di rendere il vuoto tangibile. Eppure, in questa apparente aridità, pulsa una densità emotiva profonda, una tensione costante tra ciò che è stato e ciò che non potrà più essere. In un passaggio, Madre, di fronte al computer del figlio, «aveva passato il resto della mattinata a scrollare la sua pagina. […] La maggior parte però erano foto di dettagli che, tolti dal loro insieme, diventavano quasi astratti». Quell’astrazione è il cuore del romanzo: il dolore, come l’arte, si esprime nei contorni, nei residui, nei dettagli sfocati.
In un’intervista rilasciata ad Affaritaliani.it, Ruol riflette sul ruolo della sua professione nella genesi del romanzo: “La morte – e il dolore – sono aspetti della vita con cui, da anestesista, mi confronto spesso: questo romanzo nasce dalle domande senza risposta che come medico mi porto a casa a fine turno. Come si sopravvive al dolore? C’è un senso alla sofferenza? La scienza ha dei limiti: a queste domande non troverà mai risposta”. È in questa consapevolezza che si radica l’urgenza narrativa: un bisogno quasi terapeutico di dare forma all’informe, di raccontare l’irraccontabile.
L’indagine sulla genitorialità si muove su un crinale scomodo. Non c’è idealizzazione, né condanna. Madre e Padre sono figure archetipiche, ma mai astratte: sono umani, fragili, a volte distanti. Madre si aggrappa al virtuale per cercare di mantenere un contatto con il figlio perduto; Padre, invece, si chiude nel suo dolore fino all’afasia. In questo gioco di specchi emotivi, Ruol mette a nudo una famiglia frantumata, che cerca, maldestramente, di ricomporsi. «Il resto della casa era diventato un territorio straniero, Madre un’estranea con cui non era più nemmeno sicuro di parlare la stessa lingua».
Il tema della perdita si intreccia a quello della resilienza. Se all’inizio domina la sensazione di un mondo irrimediabilmente bruciato – come suggerisce il titolo – col tempo affiorano segnali di una rinascita possibile. Non si tratta di superare il dolore, ma di imparare a coesistere con esso, accettando che la vita, dopo la catastrofe, sia solo una variazione della precedente. «C’è chi dice che il tempo cura ogni cosa. Madre non era per niente d’accordo. […] Tutto quello che fa il tempo è concedere di assistere a nuove fioriture a chi ha la pazienza di aspettare».
Michele Ruol, nato a Padova e di professione medico anestesista, ha scritto per il teatro e collaborato con diverse riviste letterarie. Questo esordio narrativo è frutto di un lavoro profondo, maturato tra silenzi e turni ospedalieri. A guidarlo, come egli stesso ammette, non è solo l’osservazione clinica della sofferenza, ma anche la convinzione che “la famiglia è l’unità minima, il grado zero delle relazioni […]. Raccontarne l’intimità, la fragilità, la speranza: è quello il brodo primordiale da cui tutto prende forma”.
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia non è un romanzo sul dolore: è un libro che parla attraverso il dolore. È una meditazione poetica sulla perdita e sulla materia, sull’impossibilità del ritorno e sul bisogno disperato di un nuovo inizio. È un’opera che interroga, ferisce, consola. E ci ricorda, con la forza dell’autenticità, che l’unico modo per sopravvivere alla catastrofe è imparare a leggere le ceneri.
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