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Attacco Usa all’Iran? Parla l’esperto: “Teheran a un passo dalla bomba: la vera arma è la conoscenza, non l’uranio”
Nella notte tra sabato e domenica, gli Stati Uniti hanno colpito con un attacco su larga scala tre dei principali siti del programma nucleare iraniano. Un’azione che arriva dopo dieci giorni di tensioni e operazioni senza precedenti da parte di Israele, che ha bersagliato infrastrutture nucleari e missilistiche iraniane, colpito obiettivi civili e portato a termine uccisioni mirate di scienziati e alti ufficiali.
Il quadro è più che mai incerto: ci troviamo in un territorio nuovo, dagli sviluppi imprevedibili. Vero è che dopo l’ultimo raid americano l’escalation è dietro l’angolo, ma ora tutto dipende da come risponderà Teheran. La domanda però resta: quanto è vicino l’Iran ad avere l’arma nucleare? E perché Israele e Stati Uniti hanno deciso di intervenire proprio adesso? Affaritaliani.it ne ha parlato con Marco Ricotti, professore ordinario di impianti nucleari al Politecnico di Milano e tra i massimi esperti italiani in materia.
Cosa sappiamo davvero oggi dello stato del programma nucleare iraniano? È più vicino alla soglia atomica di quanto immaginiamo?
Quello che sappiamo sul programma nucleare iraniano deriva dalle ispezioni, dalle indagini sul campo e dalla raccolta di informazioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), in particolare per quanto riguarda l’arricchimento del combustibile nucleare. Le informazioni accessibili pubblicamente sono quelle riportate dagli ispettori e contenute nei documenti ufficiali dell’IAEA. Tutto ciò che riguarda invece lo sviluppo di ordigni nucleari, le competenze sugli eventuali lanciatori, i razzi, le strutture o le conoscenze per detonare una bomba atomica resta in una zona meno trasparente.
L’unica certezza che possiamo avere è quanto dichiarato ufficialmente dall’IAEA: l’Iran ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, impegnandosi a non sviluppare tecnologie a scopo militare. In teoria, avrebbe dovuto anche evitare di arricchire l’uranio oltre certi limiti, perché non è necessario farlo se si persegue un programma nucleare a scopi civili. L’arricchimento necessario per alimentare i reattori civili si attesta intorno al 3-5%. Solo in casi particolari, come nei reattori di ricerca o nei rompighiaccio nucleari, si arriva al 19%, ma anche in questi casi, i firmatari del trattato sono obbligati a mantenersi entro limiti precisi.
L’Iran quindi non ha rispettato questi impegni?
No. Non è obbligatorio arricchire uranio autonomamente: si può acquistare combustibile sul mercato internazionale. Tuttavia, se un Paese sceglie di arricchirlo da sé, non dovrebbe superare il 20%, che è considerata la soglia oltre la quale il materiale assume rilevanza strategica. Dopo vari accordi, successivamente disattesi, in particolare con la decisione dell’amministrazione Trump di uscire dall’intesa, l’Iran ha scelto di portare l’arricchimento fino al 60%. Questo livello non ha alcuna giustificazione dal punto di vista civile: è un atto dimostrativo, ma potrebbe anche rappresentare un primo passo verso lo sviluppo di un ordigno nucleare.
Per questo scopo, normalmente, bisogna arrivare ad almeno il 90-95% di arricchimento. Gli iraniani erano al 60%: il lavoro che hanno fatto per passare dallo 0,7% di uranio-235, che è la concentrazione naturale, al 60%, rappresenta nove decimi del lavoro necessario per raggiungere un arricchimento da bomba, cioè al 90-95%. Quello che manca adesso è l’ultimo 10%, l’ultimo 10% di lavoro.
Quindi non ci sono armi nucleari pronte?
No, non ci sono armi nucleari pronte. Lo ha detto chiaramente anche Rafael Grossi, direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Ha confermato che l’Iran si è spinto oltre i limiti accettabili per l’arricchimento, raggiungendo il 60% senza un motivo legittimo. Ma da qui a dire che abbiano una testata atomica pronta per essere montata su un razzo e lanciata, ce ne passa. C’è chi stima che ci vorrebbero ancora uno o tre anni per completare quel passaggio. Ad oggi, come dichiarato ufficialmente, l’Iran non ha un’arma nucleare pronta all’uso.
Secondo lei, dopo gli attacchi americani e israeliani ai siti nucleari, è realistico pensare che Teheran possa rallentare o addirittura fermare il programma?
La speranza è che la diplomazia possa entrare in gioco in modo efficace e garantire all’Iran la possibilità, come sempre dichiarato, di sviluppare un programma nucleare a scopi civili. Credo che nessuno voglia negare all’Iran il diritto di avere una propria tecnologia nucleare per la produzione di energia. È un diritto pienamente legittimo. Allo stesso tempo, però, è anche diritto degli altri Paesi – in particolare di quelli che hanno firmato il Trattato di non proliferazione – pretendere garanzie sul fatto che non vi siano fini militari nascosti dietro tali attività.
Qual è, secondo Lei, il vero obiettivo degli Stati Uniti e di Israele? Distruggere l’infrastruttura nucleare o mandare un messaggio politico?
Gli attacchi e i bombardamenti lasciano intendere che l’obiettivo principale fosse ridurre o eliminare la capacità dell’Iran di arricchire uranio. Tuttavia, sembra che gli americani abbiano avvisato gli iraniani un paio di giorni prima dell’attacco, il che ha permesso di evacuare parte dei 400 kg di uranio arricchito dal sito. Quindi è possibile che si volesse lanciare un segnale, più che chiudere i canali diplomatici. Ma il vero nodo resta un altro: la conoscenza non può essere distrutta. Gli iraniani sanno ancora perfettamente come progettare e costruire centrifughe, e come arricchire uranio. L’unica strada per risolvere il problema, quindi, resta quella diplomatica.
Quali sono i rischi reali di questi attacchi alle basi nucleari iraniane?
Il rischio di contaminazione radiologica esiste, ma è limitato per due motivi. Il materiale presente è uranio arricchito fresco, che non è mai stato utilizzato in un reattore, mentre sappiamo che gran parte della radioattività viene generata durante il funzionamento del combustibile all’interno di un reattore nucleare. Quindi sarebbe stata decisamente una catastrofe se israeliani o americani avessero bombardato la centrale di Bushehr, un grande reattore da 1000 MW di tecnologia russa, che però finora si sono ben guardati dal prendere come obiettivo.
La dispersione di questo materiale gassoso, che è radiologicamente pericoloso essenzialmente se viene inalato o ingerito, rappresenta un rischio perché emette una radiazione alfa, poco penetrante – cioè che rimane nei primi strati dei tessuti – e quindi molto pericolosa se appunto viene inalata o ingerita.
Da questo punto di vista, chi opera in quei siti utilizza maschere antigas in caso di incidente. Inoltre, non essendoci una sorgente continua di calore, come quella presente in un reattore nucleare, è difficile che ci sia l’energia necessaria per disperdere questo materiale a decine o centinaia di chilometri di distanza. Quindi si tratta soprattutto di una contaminazione locale. È poi anche un pericolo di tipo chimico, perché i materiali utilizzati per l’arricchimento sono più tossici dal punto di vista chimico che radiologico.
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