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Autonomia finanziaria: un presidio strategico da difendere. Il commento 

Nel contesto dell’evoluzione dei mercati finanziari europei e della crescente centralità dei grandi gruppi bancari e borsistici paneuropei, il tema dell’autonomia finanziaria nazionale si ripropone con urgenza e profondità rinnovate. Il recente intervento del Ministro degli Esteri Antonio Tajani su Il Sole 24 Ore, che richiama la necessità di valorizzare il ruolo di Borsa Italiana all’interno del gruppo Euronext, rappresenta un segnale politico da non sottovalutare. Non si tratta di una rivendicazione protezionista, bensì della consapevolezza che l’architettura dei mercati finanziari non è mai neutra: essa riflette e condiziona l’equilibrio tra i poteri economici, la distribuzione del valore, la stabilità democratica.

L’acquisizione di Borsa Italiana da parte del gruppo Euronext, conclusa nel 2021, fu accolta con favore da una parte significativa del sistema istituzionale italiano. Non solo per il superamento della gestione precedente — sotto il London Stock Exchange Group — ma anche per la promessa di un nuovo modello “federale”, capace di rispettare le specificità dei diversi mercati nazionali. L’operazione fu accompagnata dalla partecipazione al capitale di Cassa Depositi e Prestiti e Intesa Sanpaolo, elementi che avrebbero dovuto assicurare, oltre alla governance europea, una solida radicazione nazionale.

A distanza di cinque anni, è necessario interrogarsi se quelle premesse siano state realmente tradotte in prassi operativa. Dal punto di vista quantitativo, l’Italia rappresenta oggi il secondo mercato del gruppo per capitalizzazione e volumi scambiati. Milano è la sede della principale infrastruttura per la compensazione e regolamento dei titoli a livello europeo (Monte Titoli/CSD), nonché il cuore pulsante dell’innovazione finanziaria nel Sud Europa. Tuttavia, sul piano strategico, la sensazione — sempre più diffusa tra analisti e operatori — è che l’Italia non goda di un’influenza proporzionale alla sua rilevanza.

Il rischio, concreto, è che Milano venga progressivamente “tecnicizzata”: ridotta a nodo operativo, efficiente ma privo di capacità decisionale autonoma sulle strategie di listing, sull’attrazione di capitali, sull’innovazione di prodotto. Le funzioni di indirizzo — dalla promozione dei nuovi strumenti finanziari fino alla definizione di standard ESG e AI-driven per le emissioni — si stanno spostando verso Parigi e Amsterdam, dove risiedono i centri di potere consolidati del gruppo. Il rischio è che la voce italiana si perda in una governance continentale che, pur formalmente plurale, tende nei fatti a una gerarchia implicita basata sul peso azionario e sulla storicità dei rapporti interni.

Eppure Borsa Italiana conserva asset unici: un tessuto imprenditoriale di PMI potenzialmente quotabili, un ecosistema bancario territoriale ancora attivo, una tradizione normativa e regolatoria solida. Se questa ricchezza non viene messa a sistema, rischia di restare sotto-utilizzata in un progetto più ampio che, senza correttivi, tende a centralizzare e omogeneizzare.

Già nel 2020, nel mio ruolo di Presidente del COPASIR, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ebbi modo di coordinare un’indagine conoscitiva sulle vulnerabilità del sistema finanziario italiano, con particolare riferimento agli asset strategici nei settori bancario, assicurativo e borsistico.
La relazione finale, approvata all’unanimità, mise in luce le implicazioni geopolitiche della frammentazione degli snodi finanziari nazionali e i rischi sistemici derivanti dalla perdita di controllo su infrastrutture critiche. In un contesto pandemico che aveva acutizzato le tensioni internazionali, emerse chiaramente la necessità di rafforzare la resilienza finanziaria del Paese come leva essenziale della sua sovranità.
Fu proprio in quell’ambito che si affrontò anche il dossier Euronext, nella consapevolezza che l’ingresso in un gruppo sovranazionale dovesse avvenire in condizioni di parità strutturale e non di semplice subalternità. La domanda da porsi oggi è se l’Italia sia ancora in grado di esercitare un ruolo di proposta, non solo di esecuzione, all’interno di Euronext. E se non ora, quando?

Il paradosso dell’operazione Euronext è evidente: a fronte di una maggiore visibilità internazionale per le aziende quotate italiane, si registra una minore capacità di orientare le scelte strategiche del gruppo. In altre parole: il mercato si amplia, ma il potere decisionale rischia di contrarsi. È il classico trade-off tra scala e controllo. E se in linea teorica si potrebbe accettare una minore influenza in cambio di un beneficio sistemico, nella pratica ciò presuppone almeno due condizioni: che la marginalizzazione non si traduca in una ridotta competitività per le imprese italiane e che vi sia una reale possibilità di invertire la rotta, laddove il modello federale si riveli squilibrato.

Senza questi presìdi, l’autonomia rischia di diventare un simulacro. Il fatto che alcuni dossier cruciali — come la digitalizzazione del mercato primario o l’evoluzione delle piattaforme di trading — siano gestiti fuori dall’Italia, dovrebbe far riflettere. È su queste scelte che si determina il futuro di un sistema finanziario, non su cerimoniali societari o presenze simboliche nei board.

In questo contesto, il concetto di autonomia finanziaria si allarga e si approfondisce. Non si tratta solo di “controllo”, ma di capacità progettuale, di infrastruttura intellettuale, di presenza nel disegno dell’Europa che verrà. È qui che il tema si connette con la questione più ampia dell’aggregazione bancaria, della concentrazione del risparmio gestito e della tutela degli interessi nazionali in un contesto finanziario sempre più globale.

La difesa dell’autonomia di Borsa Italiana non va intesa come una resistenza all’integrazione, ma come un modo per orientarla in senso plurale e competitivo. In un Paese in cui una larga parte del debito pubblico è detenuta da risparmiatori domestici, e in cui il legame tra banche e Stato è ancora forte, il mantenimento di una infrastruttura finanziaria autonoma è anche una forma di tutela della stabilità economica.
In altri termini, Borsa Italiana non è solo un mercato. È un presidio strategico. È un luogo in cui si misura — nel concreto — la capacità di uno Stato di decidere, orientare, costruire.

La vigilanza non può essere affidata solo alle autorità tecniche. Serve una regia politica, paziente ma ferma, che sappia coniugare apertura e tutela, partecipazione e direzione. In una stagione in cui la finanza si trasforma rapidamente — con l’intelligenza artificiale, la tokenizzazione, la rivoluzione ESG — non avere voce significa non esistere. Preservare e rafforzare il ruolo dell’Italia dentro Euronext è oggi una sfida di sistema. Riguarda l’industria, la finanza, la politica. Riguarda, in definitiva, la qualità della nostra presenza in Europa.

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