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<em>Da Linda Del Bono</em>
La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne torna a ricordarci che la violenza di genere non è una tragedia episodica, né un’emergenza improvvisa: è un fenomeno sociale strutturale che affonda le sue radici in un modello culturale antico, ancora troppo presente.
Lo abbiamo visto negli anni Settanta con il massacro del Circeo quando un gruppo di ragazzi della “Roma bene” trasformò la propria idea malata di potere in uno dei crimini più efferati della nostra storia recente. E lo abbiamo visto, vent’anni dopo, con il delitto di via Poma, nel caso di una giovane impiegata trovata senza vita nel luogo di lavoro: un delitto rimasto irrisolto, che riportò alla luce la vulnerabilità delle donne sole e quella tendenza culturale che, invece di interrogarsi sul carnefice, scruta la vittima, la giudica, la sospetta andando ad insinuare una responsabilità inesistente. Sono ferite che ci ricordano quanto sia radicata la cultura del giudizio verso le donne e quanto sia essenziale cambiare lo sguardo collettivo.
Vogliamo davvero contrastare la violenza sulle donne? Dobbiamo avere allora il coraggio di guardare al cuore del problema: il modo in cui educhiamo il maschile. Le nuove generazioni di ragazzi crescono in un mondo diverso da quello dei loro padri, un mondo più complesso, più interconnesso, ma anche più esigente sul piano emotivo e relazionale. Nonostante i cambiamenti sociali e culturali, molti modelli educativi continuano a riprodurre modelli di virilità rigida, impermeabile alla fragilità ed incapace di riconoscere, interpretare ed accettare la propria vulnerabilità.
La pedagogia di genere ci insegna che il cambiamento non può riguardare solo le ragazze, spesso educate alla prudenza e alla protezione, ma deve coinvolgere soprattutto i ragazzi. Educare alla parità di genere e alla cultura della non violenza non significa chiedere ai maschi di rinunciare alla propria identità; significa, al contrario, aiutarli a liberarsi da quella parte di mascolinità tossica che impone modelli anacronistici e autodistruttivi. Significa accompagnarli nella costruzione di un modo di essere uomini che non abbia bisogno della misoginia, del possesso o della violenza per “sentirsi maschi”.
Quali soluzioni? È necessaria, non solo più auspicabile, una nuova progettualità educativa, condivisa tra famiglie, scuole, educatori e istituzioni, che restituisca valore alle differenze e sostenga il maschile nella sua evoluzione. Occorre insegnare ai ragazzi che “quel tipo di rabbia” non è un destino biologico, ma una reazione prevalentemente culturale che può essere compresa, trasformata e superata: è fondamentale aiutarli questi nostri ragazzi, fratelli, compagni e padri del domani, a riconoscere che la relazione è un luogo di libertà reciproca, che l’amore non è possesso, che il rifiuto non è una messa in discussione del proprio valore personale in quanto uomini.
Il 25 novembre ci chiede prepotentemente di guardare oltre la superficie della violenza ed interrogare le sue radici, assumendoci la responsabilità di un cambiamento educativo collettivo. Non possiamo continuare a chiedere alle donne di difendersi senza chiederci come aiutare gli uomini a non diventare violenti. Educare il maschile è il vero investimento di civiltà: significa prevenire la violenza, certo, ma significa anche restituire agli uomini la possibilità di vivere pienamente, senza la gabbia dei vecchi modelli e senza la paura di essere, finalmente, nuovamente, se stessi.
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