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Dollaro ancora debole, ma gli analisti vedono un ritorno a 1,13 sull’euro
Le ultime decisioni prese dal presidente Trump, come il licenziamento di Lisa Cook, membro del Board of Governors della Federal Reserve, e la rimozione della direttrice del Bureau of Labor Statistics McEntarfer, insieme alle attese di un ormai prossimo taglio dei tassi d’interesse da parte della Fed (17 settembre) hanno contribuito a mantenere il biglietto verde sotto il l picco di svalutazione toccato a inizio luglio, quando il dollaro ha raggiunto quota 1,18 sull’euro.
Gli analisti di Intermonte ipotizzano che buona parte del differenziale tra Stati Uniti ed Europa, alla base della debolezza del dollaro fin dal Liberation Day, ossia fin dal 2 aprile giorno in cui Trump ha messo in atto la politica dei dazi, sia stato già prezzato.
Nel breve termine, le indicazioni di forza relativa delle economie insieme a quelle di eccesso di posizioni corte in dollari segnalano un possibile apprezzamento del dollaro (che oggi viene cambiato a 1,17 dollari contro euro, che vuol dire che 1 dollaro vale 0,86 euro) fino ad area 1,13/1,15 sulla valuta del vecchio continente. Il fenomeno potrebbe essere accentuato dai timori di fragilità dell’area euro, a causa delle difficoltà emerse in Francia e del protrarsi delle tensioni in Ucraina, con le ultime provocazioni russe (sconfinamenti aerei e missili su postazioni diplomatiche europee in Ucraina) che stanno riaccendendo la discussione sull’utilizzo delle riserve russe “congelate” in Europa.
In prospettiva, l’eventuale intensificarsi del rischio geopolitico potrebbe portare ad un apprezzamento del dollaro, che, per quanto con minore credibilità rispetto al passato, potrebbe essere ancora visto come bene rifugio in circostanze estreme. Inoltre, dando per scontato il ribaltamento da parte della Corte Suprema della sentenza sui dazi pronunciata dalla Corte d’Appello (che di fatto li annullerebbe) le entrate riconducibili alle tariffe commerciali potrebbero, almeno in parte, arginare i timori sui conti pubblici americani, per quanto questi rimangono comunque sotto pressione.
Con importazioni per 3 mila miliardi di dollari circa e dazi medi intorno al 18%, le entrate riconducibili ai dazi dovrebbero aggirarsi in media intorno ai 400 miliardi annui, cifra che bilancerebbe l’aumento del deficit causato dalle politiche dell’amministrazione Trump stimato dal Congresso Usa in 3400 miliardi su un orizzonte decennale.
A contribuire alla migliore percezione dei conti pubblici Usa anche l’eventuale prosecuzione dell’effetto “fiscal dominance”, ossia tassi nominali che rimangono relativamente contenuti o calanti, malgrado il rialzo delle attese di inflazione.
Il mondo delle obbligazioni Usa, infatti, nell’orizzonte temporale da 3 a 10 anni ha di fatto recepito il messaggio con cali generalizzati dei tassi e, in prospettiva, la Fed potrebbe risentire molto delle ingerenze governative che spingono per tagli dei tassi anche in presenza di spinte inflattive. Per questo le prossime emissioni dei bond Usa potrebbero focalizzarsi maggiormente proprio su questo tratto (3-10 anni), aiutando a ridurre il costo del debito.
In sintesi, nel breve periodo, il cambio tra euro e dollaro potrebbe migliorare spingendosi fino a 1,13/1,15, per poi tornare in area 1,18/1,20 intorno alla fine dell’anno o entro il primo trimestre 2026. La previsione però è positiva e già nel corso del 2026 il cambio dovrebbe tornare in area 1,10/1,12. Una buona notizia dunque per chi esporta merci negli Usa.
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