Rinnovo Patente? Facile ed Economico
USA e Cina usano l’economia come arma politica, ma i danni li subiscono gli altri. Un accordo tra le due superpotenze non è impossibile
Le tensioni tra Stati Uniti e Cina tornano a infiammarsi: dazi reciproci, minacce commerciali e nuove sanzioni colpiscono trasporti, energia e materie prime. Il Venezuela entra nello scacchiere, mentre il Vietnam corre veloce, insieme a Indonesia e Malesia, attirando capitali e influenza.
L’Europa, invece, resta spettatrice divisa e lenta, incapace di reagire a un mondo che si ridisegna a Est. Capire dove si muove l’equilibrio globale, e come evolveranno queste tensioni, è oggi cruciale. Affaritaliani ne ha parlato con Valentino Durante, partner dello Studio Legale Casa & Associati, esperto di Diritto Internazionale e Societario, presente in Vietnam alla 38ª Conferenza di LAWASIA.
Le tensione tra Usa-Cina è davvero in aumento? Cosa è successo negli ultimi giorni?
La tensione, in realtà, non si è mai allentata e nelle ultime 24 ore ha raggiunto un altro picco di “visibilità”. Applicare ai trasporti marittimi (battenti bandiera cinese o statunitense) una tassazione speciale (o “special port fees”) significa certamente registrare come il confronto sia sempre più “duro”. Ma bisogna anche saper guardare dentro a questo modo, molto particolare, di “dialogare” tra superpotenze.
Applicare, infatti, come hanno intenzione di fare gli Stati Uniti, tasse portuali sui cargo cinesi significa toccare quasi il 50% del trasporto marittimo (solidamente in mano ai loro concorrenti asiatici), mentre applicare lo stesso tipo di misura sui cargo statunitensi diretti verso la Cina significa colpire meno dell’1% di tutti i carrier marittimi verso quella destinazione: cioè, sostanzialmente una briciola in mezzo al mare. Vero è che la Cina tenterà di applicare questa misura anche a navi collegate agli USA — come quelle con almeno il 25% di proprietà/controllo statunitense — ma il tratto più caratteristico di questa “ritorsione” è il suo messaggio: “la Cina risponde e risponderà ad ogni nuova restrizione nei suoi confronti”.
D’altra parte, applicare sanzioni molto alte ai vettori cinesi significa anche aumentare il prezzo di quelle stesse merci sul mercato statunitense e non tutti gli acquirenti interni potrebbero festeggiare questo risultato. Quindi, se per i produttori o i trader mondiali questo “linguaggio” tra i due giganti dell’economia si potrà tradurre in un rincaro dei noli e una conseguente restrizione sul margine delle proprie attività, per i contendenti stessi il tema principale è un altro: come porre fine a tutto questo? Ed è proprio quello che sottotraccia sembra che si stia negoziando in questo momento e che presto potrebbe sfociare in uno “storico” accordo tra le due superpotenze. Vedremo.
Stop cinese alla soia USA e minaccia USA sull’olio da cucina: quanto è credibile un embargo?
Sul piano pratico, l’“embargo” sull’olio da cucina cinese avrebbe un impatto molto limitato: il flusso verso gli USA è già crollato nel corso di quest’anno e in fin dei conti riguarda segmenti di nicchia (come quello, ad esempio, degli oli esausti per biocarburanti). Diversamente, la prosecuzione del blocco delle importazioni di soia statunitense da parte dei cinesi potrebbe tradursi in un effetto molto più rilevante e “doloroso” per i venditori.
Ma altrettanto “pericoloso” per gli acquirenti e per gli impieghi massivi di soia in Cina, soprattutto nel settore zootecnico. Chi ci guadagnerà allora? Probabilmente nessuno. Ed è proprio questo che il gioco di alzare la “voce” attraverso i nuovi percorsi tariffari nasconde. Le nostre economie sono interconnesse e questo è un bene perché mitiga l’insorgenza di conflitti.
Sostituire la Cina su beni diffusi senza far esplodere i prezzi USA è realistico?
Solo in parte e non nel breve. Dove la dipendenza è alta, lo “switchover” implica costi: dual-sourcing in ASEAN/India, scorte più alte, tempi di qualifica. In alcuni settori (come quello della chimica fine o della componentistica) l’offerta extra-Cina non è ancora sufficiente: il rischio, dunque, è quello di avere forti pressioni sui prezzi a valle, come avverte da tempo anche l’FMI quando riflette sugli scenari di “tariff escalation”.
Cina in deflazione (CPI negativo): rallentamento strutturale o strategia per l’export?
I dati di settembre mostrano CPI –0,3% a/a e PPI –2,3%: deflazione “persistente” trainata da domanda interna debole e sovracapacità in alcuni settori. Non è solo tattica competitiva: è un mix di fattori strutturali (immobiliare, deleveraging, price wars) compensato da un core CPI al +1% che segnala tenuta in alcune voci. Ancor e ancora: turbolenza e incertezza: per chi esporta in Cina: attenzione a price-sensitivity e a cicli promozionali più aggressivi.
Il Tesoro americano accusa la Cina di voler “affondare l’economia mondiale”. Ma chi sta davvero usando l’arma economica come strumento politico in questa partita?
Entrambe le parti impiegano leve economiche (le tariffe, i controlli sull’export, le special port fees) come strumenti negoziali. Un “negoziato” che potrebbe rivelarsi molto oneroso soprattutto per i non contendenti. Sotto questo profilo aumentare il “dosaggio” di clausole di prevenzione rischi nella contrattualistica internazionale (come le clausole MAC, quelle di force majeure o di harship) potrebbe rivelarsi un fattore talvolta decisivo nell’evitare i contraccolpi peggiore.
Con l’FMI che alza le stime globali, chi rischia di più se lo scontro continua?
L’FMI vede una crescita globale del 2025 attestarsi intorno al 3,2%, ma avverte: un’ulteriore escalation può tagliare oltre 1 punto di PIL mondiale nei prossimi due anni. Nel testa-a-testa, entrambe le economie delle superpotenze reggerebbero nel breve termine (USA ~2%, Cina ~4,8%), mentre le catene globali della fornitura e gli emergenti integrati nel trade manifatturiero risentirebbero in modo significativo del protrarsi di una situazione di “conflitto” commerciale. Un pericolo concreto e mitigabile solo se le PMI sapranno spingersi in modo più deciso all’interno del territorio dell’internazionalizzazione diretta.
Che cosa fare, in concreto (e quale impatto per le aziende)?
Continuo a pensare che le soluzioni più autentiche siano quelle di lungo periodo e quelle capaci di modificare il paradigma dominante. Nella contrattualistica internazionale, ad esempio, includere regole di “cooperation” nell’esecuzione del contratto non è più solo un “buon suggerimento”, ma molto spesso una vera e propria “chance de survie” per ogni tipo di impresa.
Senza dimenticare che bisogna accettare l’idea di regolamentare – tramite contratti – i propri rapporti internazionali e non limitarsi ad affidarsi alla legge di “casa”. E, al contempo, preparare il terreno a strategie di internazionalizzazione di grado superiore rispetto alla classica distribuzione dei propri beni tramite agenti od operatori locali: in altre parole, accorciare la catena del valore.
Altri strumenti:
- Rerouting & dual-sourcing: attivare fornitori e hub alternativi (come il Vietnam o altri Paesi emergenti del Sud-est asiatico) per ridurre il rischio legato a tratte e porti soggetti a oneri sempre più incidenti.
- Dogane & compliance: granularità HS code, regole di origine e “ownership tests” (soglia 25%) nella catena di trasporto; audit su chartering e operatività flotta.
- Finanza e coperture: acquistare hedge su noli/spread logistici; adottare delle “inventory strategy” per arrivare a gestire i picchi stagionali.
- Scenario planning: simulare gli effetti di tariffe al 100% su specifiche categorie di prodotti od operatori e predisporre listini flessibili o “price sensitive”.
Naturalmente, non esiste una sola misura capace di proteggerci da tutto, dovendo invece affidarci, più ragionevolmente, a un mix di interventi che ci aiutino in modi diversi. Benché la prima difesa, forse, sia propria quella di non rinunciare mai a difendere il commercio globale come un baluardo contro le “turbolenze” o i “linguaggi” tariffari troppo pericolosi.
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