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Dazi, Meloni ha evitato il peggio. Ecco come
“Piutost che nigot, l’è mej piutost”. Tradotto dal milanese all’italiano: “Piuttosto che niente, è meglio piuttosto”. Giorgia Meloni, romana doc della Garbatella, non è certo meneghina come Matteo Salvini, ma lo storico modo di dire del dialetto del capoluogo lombardo si addice perfettamente a quanto sta accadendo nella trattativa tra Unione europea e Stati Uniti sui dazi. Certo, l’obiettivo iniziale di dazi zero si è sciolto come neve al sole. E anche il target di tariffe al 10% è ormai superato.
Donald Trump, imprevedibile presidente Usa, sta per chiudere l’intesa con Bruxelles sul 15%. Ormai – stando a fonti qualificate – manca solo la definizione degli ultimi dettagli e poi ci sarà la firma ufficiale con la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. La sinistra, soprattutto in Italia, ha gioco facile ad attaccare l’atteggiamento del governo e della presidente del Consiglio, troppo “inginocchiato” nei confronti del tycoon e quindi “colpevole” di un risultato che avvantaggia Washington ai danni del Vecchio Continente. Ma bisogna essere realisti, spiegano fonti della maggioranza.
Abbottonatissima la premier e anche dai suoi fedelissimi arrivano poche parole, tutte improntate alla cautela e alla prudenza. Meloni, sempre ben consigliata dalla sorella Arianna, ha più volte spiegato anche in Parlamento che non pubblicizza tutto ciò che fa. Anzi, ben poco. E chi conosce bene la leader di Fratelli d’Italia sa perfettamente che nelle ultime settimane è stata attaccata ore e ore al telefono per mediare, trattare, smussare gli angoli sia con gli altri partner europei sia con la Casa Bianca. E in particolare con il vice-presidente Usa JD Vance, con il quale si è creato un ottimo rapporto personale con le sue visite a Roma e in Vaticano essendo di religione cattolica.
Fonti ai massimi livelli di governo spiegano che se non fosse stato per il ruolo giocato da Meloni in quest’ultimo periodo, rigorosamente lontano dai riflettori mediatici, i dazi Usa sarebbero stati al 30% nei confronti dell’Unione europea e non al 15 come con il Giappone. La linea francese di Emmanuel Macron – che ha un interscambio commerciale nettamente inferiore rispetto a Germania e Italia con gli States – era quella di rispondere con forza puntando soprattutto sul bazooka della tassazione delle big tech Made in USA. Ma questo avrebbe scatenato l’ira di Trump con dazi, appunto, al 30%.
Un colosso dell’auto come Volkswagen nel secondo trimestre ha registrato un calo drastico degli utili (-36,3%) proprio a causa dei dazi. E questo colpisce anche l’indotto italiano molto connesso con l’economia tedesca. E da questi dati che sono partiti i ragionamenti della premier, in sintonia con il cancelliere Friedrich Merz (PPE come von der Leyen e Antonio Tajani) per cercare insistentemente una soluzione la meno dolorosa possibile. D’altronde gli Stati Uniti d’America sono una nazione unica, anche se federale, l’Unione europea invece non è un’entità unitaria e ognuno va per la sua strada. Come si vede anche sulle crisi internazionali in Medio Oriente e tra Ucraina e Russia.
E quindi il lavoro certosino, instancabile e quotidiano di Meloni – spiegano da FdI – è servito per evitare il danno peggiore. Cioè la guerra commerciale a suon di rialzi di dazi e di contro-misure che alla fine avrebbero portato le tariffe per chi esporta in America anche oltre il 30%. Insomma, la premier, romana doc, probabilmente si è fatta insegnare bene dal suo vicepremier Salvini il detto milanese “Piutost che nigot, l’è mej piutost”. Ed ecco come si sta arrivando a chiudere al 15%.
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