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Prandini ad Affaritaliani: “L’Europa dovrebbe fare molto di più, è lontana dalle reali esigenze del settore. Serve una visione politica nuova”

In un momento cruciale per l’agricoltura italiana ed europea, tra transizione ecologica, sfide geopolitiche e difesa del made in Italy, Coldiretti continua a rivendicare un ruolo centrale nel dialogo con le istituzioni. Il presidente Ettore Prandini racconta ai microfoni di Affaritaliani le priorità dell’organizzazione, dalla sostenibilità alla lotta contro l’Italian Sounding, passando per le criticità della Politica Agricola Comune e la necessità di una nuova visione strategica a livello europeo.

In questa intervista esclusiva, Prandini approfondisce alcuni dei temi già trattati durante la sua partecipazione a “La Piazza”, la kermesse di Affaritaliani organizzata a Ceglie Messapica dal 2018, dove è intervenuto lo scorso 29 agosto intervistato dal direttore del quotidiano Marco Scotti.

Coldiretti ha ottenuto risultati concreti con l’attuale governo. Ma quali sono, secondo lei, le principali sfide strutturali che l’agricoltura italiana deve affrontare nei prossimi cinque anni? E come Coldiretti pensa di sostenerle concretamente?

“Io penso che la sfida principale debba essere quella di garantire la centralità del ruolo dell’imprenditore agricolo nella filiera agroalimentare, creando un meccanismo di redistribuzione del valore lungo tutta la filiera. Questo deve avvenire indipendentemente dagli aspetti contributivi, che pure sono importanti per molte filiere e rappresentano un sostegno diretto al lavoro svolto. Ma sempre di più il nostro ruolo si giocherà nelle fasi di trasformazione dei prodotti, nella presenza delle imprese agricole nei meccanismi di vendita, anche sui mercati internazionali. È questa la vera sfida che ci appartiene”.

Il tema della sostenibilità è sempre più centrale. Come si può conciliare la tutela dell’ambiente con la necessità di mantenere competitività e redditività per le aziende agricole italiane, soprattutto di piccole e medie dimensioni?

“Secondo noi, è fondamentale partire dai dati e dai numeri, che sono inconfutabili. Oggi dimostrano chiaramente che l’agricoltura italiana è la più sostenibile a livello globale. Alcune filiere, come quella zootecnica, sono spesso strumentalizzate, ma grazie agli studi universitari e dei centri di ricerca possiamo dimostrare che la nostra zootecnia è in assoluto tra le più sostenibili. E possiamo fare ancora di più.

Penso, ad esempio, alla produzione di energie rinnovabili: agli impianti di biogas e biometano, all’utilizzo del digestato come sostanza emendante in sostituzione dei concimi chimici. Penso all’innovazione tecnologica, come l’uso dei droni, delle mappature satellitari, che ridurranno l’uso di fitosanitari. Ma senza una demonizzazione eccessiva: ricordiamoci che un agricoltore non ne abusa mai, perché rappresentano per lui un costo, ma servono anche a proteggere ciò che coltiva e offre poi ai cittadini”.

Il Nutri-Score e il dibattito sul cibo sintetico hanno acceso un importante confronto a livello europeo. Lei pensa che l’Italia possa davvero guidare una nuova politica agroalimentare europea, o rischiamo di restare sempre sulla difensiva rispetto a questi temi?

“Io penso che l’Italia sia un esempio da seguire su questi temi. Siamo stati il primo Paese a vietare la commercializzazione e la produzione di cibi sintetici con una clausola di salvaguardia. Non è solo una difesa del settore, ma una tutela della salute dei cittadini. Fortunatamente, l’iniziativa italiana è stata seguita da tanti altri Paesi nel mondo. Abbiamo detto sì alla ricerca, ma no alla vendita e alla produzione di questi prodotti.

Il Nutri-Score, invece, è un’altra questione. È un sistema di etichettatura fuorviante, che inganna il consumatore con un semaforo verde su certi prodotti, facendo però un’analisi parziale. Paradossalmente favorisce prodotti industriali, spesso realizzati da grandi multinazionali, e penalizza quelli che rappresentano la storia, la cultura e la tradizione di un Paese, non solo dell’Italia. Approfondimenti tecnico-scientifici hanno dimostrato l’inaffidabilità di questo metodo di valutazione, e oggi l’Europa lo sta rimettendo in discussione. Questo è avvenuto anche grazie all’azione politica di Coldiretti, che ha difeso sin dall’inizio le nostre eccellenze”.

L’export agroalimentare italiano ha raggiunto cifre record, ma permangono difficoltà legate a dazi e concorrenza sleale. Quali strumenti e strategie Coldiretti ritiene più efficaci per proteggere e far crescere il made in Italy nel mondo?

“Le rispondo con una parola: reciprocità. Abbiamo più volte sottolineato l’importanza di rafforzare i mercati in cui siamo già presenti, e spinto le istituzioni a investire su nuovi mercati. Ma, allo stesso tempo, chiediamo che, laddove si consenta ad altri di esportare verso l’Europa, vengano rispettate le stesse regole imposte alle nostre imprese agricole. Altrimenti si genera concorrenza sleale.

Se siamo rigidi sulla sostenibilità per i nostri imprenditori, non possiamo poi importare prodotti che non rispettano gli stessi criteri. Il problema riguarda anche la manodopera: è giusto combattere il caporalato, ma non possiamo tollerare importazioni da Paesi dove viene sfruttata la manodopera minorile. Diversamente, ci troviamo di fronte a due pesi e due misure. Questo non è accettabile”.

L’Italian Sounding continua a rappresentare una grande sfida per il nostro settore, ma anche un segnale della domanda globale di prodotti italiani. Quali strategie può mettere in campo Coldiretti per contrastare le imitazioni e valorizzare il vero made in Italy?

“Io penso che la vera forma di contrasto all’Italian Sounding sia legata a una presenza concreta sui mercati dei veri prodotti agroalimentari italiani. Proprio per questo, negli ultimi incontri con il governo e con la presidente del Consiglio, abbiamo chiesto — anche in merito al tema dei dazi — un aumento delle risorse da destinare a una strategia di comunicazione delle eccellenze enogastronomiche italiane a livello globale. Inoltre, riteniamo che l’evoluzione tecnologica, come l’uso dei QR code e dei sistemi di tracciabilità digitale, possa aiutare in modo determinante.

Le nuove generazioni utilizzano sempre di più questi strumenti per informarsi sulla provenienza dei prodotti: è un’opportunità per rendere trasparente ciò che viene venduto e commercializzato in tutto il mondo”.

Prandini, lei ha dichiarato che Coldiretti si sente tutelata da alcuni rappresentanti nazionali ma non dalla Commissione Europea, accusandola di aver delegato troppo ai burocrati. Può spiegare meglio quali sono gli ostacoli principali che le imprese agricole italiane incontrano a livello europeo e cosa servirebbe per superarli?

“Io penso che oggi l’Europa, rispetto allo scenario globale, dovrebbe fare molto di più. Basti pensare agli investimenti degli Stati Uniti: nel piano agricolo decennale investono circa quattro volte quanto noi destiniamo alla Politica Agricola Comune. Questo dovrebbe far riflettere sull’indirizzo che l’Europa dovrebbe seguire. Lo stesso vale per la Cina. Se un tempo il tema del cibo era secondario per loro, oggi è diventato centrale anche nella geopolitica.

La Cina produce circa il 18% dei cereali globali e ne detiene, su alcune filiere, il 60% in termini di stoccaggio. In Europa, invece, per anni si è disincentivata la produzione agricola e l’utilizzo pieno dei terreni coltivabili. Questo dimostra ancora una volta quanto sia stata miope l’azione europea, lontana dalle reali esigenze del settore. Serve una visione politica nuova”.

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