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Bialetti, 100 anni di caffè tutto italiano: ora l’omino coi baffi parla cinese
L’omino coi baffi, la moka sul fuoco, il profumo di caffè che è casa per milioni di italiani. Bialetti passa ufficialmente nelle mani di Nuo Capital, la holding lussemburghese controllata da Stephen Cheng, il magnate di Hong Kong della famiglia Pao Cheng. Un colpo da oltre 53 milioni di euro che segna l’ingresso di uno dei simboli più longevi del Made in Italy nella galassia degli investimenti cinesi.
Il cuore dell’operazione è il contratto per l’acquisizione del 78,567% delle azioni di Bialetti, con due passaggi chiave: il primo, da 47,3 milioni, per il 59% detenuto da Bialetti Investimenti e Bialetti Holding; il secondo, da 5,7 milioni, per il 19,5% in mano a Sculptor Ristretto Investment. Il closing è previsto entro giugno 2025, poi partirà l’Opa finalizzata al delisting da Piazza Affari. Un segnale evidente dello stato di salute del gruppo è che ha chiuso il 2024 con una perdita pari a 1,11 milioni di euro (seppur in miglioramento rispetto ai 2,18 milioni del 2023).
Alla guida dell’operazione c’è Tommaso Paoli, classe 1970, originario di Jesi ma milanese d’adozione ed ex banchiere di Intesa Sanpaolo. Paoli è Ceo di Nuo, una holding che si presenta come ponte tra capitali asiatici e piccole e medie imprese italiane a caccia di nuova linfa. Nuo ha già investito oltre 400 milioni nel Made in Italy: Venchi, Slowear, Scarpa, Bending Spoons. Ora tocca a Bialetti, “una sfida significativa e bellissima”, spiega Paoli. L’obiettivo? Rafforzare l’identità del brand, ma aprirlo al mondo. “Investiamo nell’italianità – aggiunge – per renderla protagonista sui mercati globali, senza snaturarla”.
Ma il vero regista, dietro le quinte, è Stephen Cheng: nipote del fondatore della World-Wide Shipping – colosso dei trasporti marittimi – e raffinato cultore del lifestyle italiano. Nuo Capital, con base in Lussemburgo ma anima cinese, è la sua creatura. Sul’operazione Bialetti, però, ora c’è in gioco non solo un bilancio da sistemare ma la rinascita industriale di un marchio che ha fatto la storia. Già, perché Bialetti non è solo una caffettiera. È una parabola tutta italiana.
Tutto comincia più di un secolo fa, nel 1919, a Crusinallo, vicino a Omegna, dove Alfonso Bialetti apre un’officina per la lavorazione dell’alluminio. È lì che nel 1933 nasce la Moka Express: un cilindro ottagonale ispirato alla caffettiera napoletana e al funzionamento delle lavatrici a vapore; la Moka Express subito rivoluziona la pausa caffè, permettendo di fare “l’espresso come al bar” nel cuore di casa.
Un’idea semplice, ma così potente da attraversare la guerra, le generazioni e le mode. La vera esplosione arriva con Renato, figlio di Alfonso, che nel dopoguerra trasforma il laboratorio in industria e affida l’identità visiva al genio e alla matita di Paul Campani, creatore dell’omino coi baffi ispirato proprio a Renato (con dito alzato e papillon) e oggi icona immortale del marchio.
Negli anni del boom economico, Bialetti è sinonimo di Italia che si alza presto e corre veloce, anche grazie agli spot su Carosello. Nel 1993 viene acquisita dal gruppo Rondine, guidato da Francesco Ranzoni (oggi presidente del cda di Bialetti Industrie). L’unione si consolida e porta alla nascita, nel 2006, del progetto retail con gli store monomarca. Nel 2007 il debutto in Borsa. Poi però il caffè si raffredda. Il mercato cambia, l’indebitamento cresce, e il brand – pur restando amato – fatica a tenere il passo dell’innovazione. Nel 2010 arriva il lancio delle macchine espresso a capsule, ma non basta.
Ecco perché l’operazione Nuo è anche – e soprattutto – una boccata d’ossigeno per i conti. Stephen Cheng, appassionato della cultura italiana, ha già messo le mani, in passato, su marchi di nicchia e non sembra intenzionato a trasformare Bialetti in una linea per il mercato cinese low-cost. Ora, dopo il closing dell’operazione, previsto entro l’estate 2025, Bialetti uscirà da Piazza Affari. Poi si aprirà una nuova fase.
Insomma più che una cessione, è un passaggio di testimone: da un’epoca industriale che ha fatto l’Italia a una visione che guarda all’Asia e ai mercati internazionali. Con una promessa: quella di non snaturare l’identità di un marchio che, da quasi cento anni, profuma di caffè e di casa.
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