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Quando il cinema si prendeva in prestito: l’ascesa e la caduta di Blockbuster
Chiudiamo gli occhi un attimo: è sabato sera, hai dieci anni e tuo padre ti porta in un negozio illuminato di blu e giallo. Scaffali infiniti pieni di custodie di VHS, l’odore dei popcorn al microonde in vendita vicino alla cassa e quella sensazione magica di dover scegliere il film perfetto per la serata. Nessuno scroll sul telefono, nessun algoritmo che ti suggerisce cosa guardare: solo te, le copertine colorate e il tempo che scorre mentre giri tra i corridoi. Quella dimensione quasi rituale aveva un nome: Blockbuster.
La nascita
La storia di Blockbuster nasce da un insuccesso. Negli anni ’70, l’informatico David Cook fonda la Cook Data Services, società di software per l’industria petrolifera. L’azienda cresce rapidamente, fino alla quotazione in borsa nel 1983, ma il crollo del prezzo del petrolio la porta al tracollo.
Sarà la moglie di Cook, appassionata di cinema, a suggerirgli di puntare su un settore nascente: il noleggio di videocassette. Così, il 19 ottobre 1985, a Dallas apre il primo store Blockbuster.Il nome “Blockbuster”, preso in prestito dal linguaggio militare (le “bombe che distruggono un isolato”) e poi dal gergo hollywoodiano per i film campioni d’incassi, non poteva essere più profetico.
Il successo è immediato: più di 8.000 VHS disponibili, 6.500 titoli diversi (quando la media dei concorrenti era poche centinaia), scaffali ordinati per visibilità e un sistema informatico basato su codici a barre che tracciava tutto. Quella prima notte i clienti erano così tanti che dovettero chiudere le porte per eccesso di affluenza.
Cook capì di aver creato un modello scalabile, ma nel 1987 cedette parte della società a un gruppo di investitori guidati da Wayne Huizenga, imprenditore visionario con idee molto chiare: Blockbuster doveva diventare il McDonald’s dei videonoleggi.
E così fu. Negli anni successivi l’azienda iniziò ad aprire un negozio ogni 24 ore, acquisendo decine di concorrenti e creando un impero inarrestabile. Alla fine degli anni ’80 Blockbuster contava 700 store e nel 1994 la società venne acquistata da Viacom per 4,8 miliardi di dollari.
Il successo
Negli anni ’90 Blockbuster era ovunque: quasi 9.000 negozi, 84.000 dipendenti, 60 milioni di soci in oltre 25 Paesi. In Italia arrivò nel 1994 grazie a una joint venture con Standa, diventando un punto di riferimento anche per chi, il sabato sera, usciva di casa più per scegliere una VHS che per comprare il pane.
Il modello di business era tanto semplice quanto redditizio. Con la tessera personale, i clienti noleggiavano VHS o DVD per uno o tre giorni. L’incubo erano però le multe per i ritardi che nel 2000 fruttarono all’azienda ben 800 milioni di dollari, il 16% del fatturato.
A questo si aggiungevano gli introiti accessori: snack, bibite, caramelle e gadget, che trasformavano l’esperienza in una sorta di gita al supermercato dell’intrattenimento. Curiosamente, Blockbuster rifiutò sempre di noleggiare film pornografici, un segmento che invece trainava molti videostore indipendenti.
Negli anni ’90 Blockbuster era più di un negozio, era un luogo sociale e simbolico. Intere generazioni ricordano il brivido della scelta, le file davanti agli scaffali, il rituale di riavvolgere la VHS prima di restituirla. Il brand entrò prese a gamba tesa anche nella cultura popolare: dal film Last Action Hero fino a comparire in Captain Marvel (2019), dove la protagonista piomba letteralmente dentro un Blockbuster.
Il declino
Paradossalmente, il seme del fallimento fu piantato nel momento del massimo splendore. Blockbuster, abituata a dominare il mercato, non seppe vedere (e riconoscere) i cambiamenti tecnologici che stavano arrivando. Nel 2000, Reed Hastings, fondatore di una piccola società chiamata Netflix, propose a Blockbuster di acquistare la sua azienda per 50 milioni di dollari.
Il CEO John Antioco rifiutò, ritenendo il servizio di DVD per posta un business marginale. Nel 2008, il CEO Jim Keyes affermò con convinzione che “né Redbox né Netflix rappresentano una minaccia”. Due anni dopo Blockbuster dichiarava bancarotta.
La concorrenza di internet, della televisione digitale e dello streaming on demand rese obsoleto il modello del videostore. Nel 2010 l’azienda entrò ufficialmente in Chapter 11, schiacciata da 900 milioni di dollari di debiti. Nel 2011 fu acquistata da Dish Network, che tentò un rilancio con il servizio “Blockbuster on Demand”, ma nel 2013 anche gli ultimi 300 negozi negli Stati Uniti vennero chiusi.
L’ultimo superstite
Oggi resta un solo negozio Blockbuster al mondo, a Bend, in Oregon, divenuto meta turistica e icona nostalgica. Eppure il brand non è del tutto scomparso: alcuni servizi streaming di Dish portano ancora il suo marchio, e l’immaginario collettivo continua a celebrarlo come simbolo di un’epoca in cui guardare un film era un’esperienza fisica, condivisa, quasi rituale. Negli Usa alcune vecchie sedi della catena sono diventate persino case vacanze su Airbnb, in Italia molti sono stati riconvertiti in parafarmacie.
La sua storia insegna che l’innovazione non basta a conquistare il mondo: serve anche umiltà nell’ascoltare i segnali del cambiamento. Blockbuster non è più un colosso, ma resta un’icona, e il ricordo di un’epoca in cui, per passare una serata perfetta, bastava una tessera blu e gialla e la magia di una VHS appena scelta dallo scaffale.
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