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Vertice in Alaska, il commento 

Diciamolo subito: il vero vincitore di questi negoziati non è Vladimir Putin. È Donald Trump. Non perché sia più fine stratega, ma perché ha un vantaggio che nessuno in Europa ha più: decide. Impone l’agenda, sposta i confini del possibile, trasforma i “tavoli” in palcoscenici. E mentre gli altri si accontentano di comunicati, lui incide sulla realtà. Usa un metodo di contrattazione ferino, atavico, per nulla europeo. Chiede la luna per ottenere, almeno, qualche stella. Mentre il Vecchio Continente resta vittima del suo burocratese, dei suoi impasse, di un coacervo di Stati ognuno con un’anima diversa che difficilmente riesce a trovare una voce unica con cui parlare.

Trump mette l’Europa nell’angolo. La rende ancora più marginale di quanto già non fosse: non per cattiveria, per metodo. Il messaggio è semplice ed è già stato recapitato: chi vuole la protezione americana paghi il prezzo. Non il 2% promesso a fatica, ma fino al 5% del Pil. È una linea rossa che costringe i governi a scegliere tra welfare e difesa, bilanci e deterrenza. E, soprattutto, riafferma chi comanda davvero nella Nato: non un’alleanza tra pari, ma un sistema a trazione statunitense in cui Washington stabilisce chi entra e chi resta fuori. In un colpo solo, l’Europa scopre di non essere arbitro di nulla: né degli allargamenti, né della propria sicurezza. Ora c’è però un ulteriore passo in avanti. Se si paga ci si siede al tavolo, ma il padrone di casa resta sempre e solo lui, The Donald. Che ha già detto e deciso – in modo ancora una volta assai poco diplomatico – che l’Ucraina una sedia nell’Alleanza Atlantica non l’avrà mai. E dovrà definitivamente dire addio (almeno) alla Crimea.

C’è poi il rovesciamento narrativo, tratto tipico del trumpismo. Con una mano, il presidente americano si prende la licenza di riscrivere la trama: Zelensky può essere trattato da aggressore e Putin da vittima; con l’altra, annuncia sanzioni improbabili alla Russia, utili a tenere tutti sulle spine. Non è incoerenza, è tecnica: confondere l’avversario, disorientare gli alleati, ribadire che l’unico punto fermo è lui. La diplomazia come reality: regole flessibili, eliminazioni improvvise, finale già scritto.

Il passaggio cruciale, però, sta altrove: spezzare il patto di ferro tra Russia e Cina, il vero tarlo che turbava i sonni del Tycoon. Come spaccare questa amicizia? Trattando con riguardo Putin e, nel frattempo, portando la sfida dove fa più male: nelle catene del valore del futuro. Le terre rare non sono un capitolo per tecnici, sono la chiave di volta della prossima egemonia. Chi controlla quei metalli controlla microchip, batterie, intelligenza artificiale, difesa. Trump questo lo ha capito: si muove per drenare investimenti, contratti, concessioni, logistica. Mette pressione su Pechino, blandisce Mosca, costruisce alternative.

E mentre l’Europa discute di regole, Trump chiama le piattaforme e strappa l’impegno simbolico: 100 miliardi di investimenti negli Stati Uniti solo da Apple, che naviga nell’oro proprio perché finora ha prodotto altrove (Foxconn o gli “alveari” a Shenzhen dicono niente?). Non è solo denaro, è magnetismo politico. Significa server, data center, occupazione qualificata, filiere che si trasferiscono. Significa che la prossima ondata tecnologica parlerà americano e non europeo. A Bruxelles si replica con linee guida; a Washington si piantano pali e si tirano cavi.

Sul Medio Oriente, stessa grammatica. Israele resta il perno dell’ordine regionale: non perché lo dicono le analisi, ma perché lo impone la realtà. Trump lo sa e “strizza l’occhio” senza pudore a Benjamin Netanyahu che può permettersi di dire di essere pronto a invadere Gaza. È il segnale che il prossimo terreno sarà lì. E quando ci entrerà, Trump lo farà “a piedi uniti”: accordi rapidi, mosse spiazzanti, pressioni economiche e diplomatiche. Chi si scandalizza non ha capito il punto: non esiste più il lusso del tempo lungo. Esistono solo finestre di opportunità, e vince chi arriva prima.

E noi? L’Europa appare come sempre: saggia nei convegni, irrilevante nelle decisioni. Discutiamo di autonomia strategica mentre deleghiamo la strategia. Ci indigniamo per il tono, ma subiamo la sostanza. Pretendiamo di essere “terza via”, ma senza energia a prezzi competitivi, senza controllo delle materie prime, senza una difesa credibile, la terza via è un vicolo cieco. Non è solo Trump a cambiare il gioco; siamo noi ad aver rinunciato a giocarlo. Abbiamo preferito la gestione alla visione, la regola al rischio, l’equilibrio al potere. Poi ci stupiamo se altri decidono al posto nostro chi entra nella Nato, quanto spendiamo in armi, dove passeranno le filiere del digitale, a chi verranno affidate le chiavi delle nostre economie.

Trump, piaccia o no, plasma la storia a suo piacimento perché ne possiede gli strumenti: forza militare, dominio tecnologico, valuta, capitale politico. E perché ha scelto il terreno su cui combattere: non le mozioni d’aula, ma le catene del valore. Non i principi astratti, ma i flussi reali. Le sanzioni che annuncia e ritira, le alleanze che spinge e disfa, sono la superficie visibile di un lavoro più profondo: ricondurre a sé le leve che contano.

Allora la domanda è una soltanto, e riguarda noi: vogliamo continuare a lamentarci del protagonista o tornare a scrivere la sceneggiatura? Se l’Europa non decide in fretta su energia, difesa, terre rare, tecnologie critiche e politica estera, resterà un pubblico pagante in un teatro altrui. Il conto, com’è già successo, lo pagheremo in crescita, salari, credibilità.

Il vincitore, oggi, è Trump. Non perché sia infallibile, ma perché è l’unico che ha accettato di pagare il prezzo del comando. Il resto è rumore di fondo. E il rumore, alla lunga, copre le parole ma non i fatti. Sta a noi scegliere se tornare a produrli, i fatti, o limitarci a commentarli.

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