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C’era una volta un inverno milanese. Non un inverno di quelli di adesso, con l’umidità che pizzica i finestrini dei SUV elettrici e l’aria che sa di PM10 anche a dicembre. Era un inverno vero, con la nebbia che ti entrava nelle ossa, e un cappotto grigio addosso, che odorava un po’ di panno buono e un po’ di tram. Avevo pochi anni, eppure mi ricordo tutto. Quella sera si andava a teatro, con mamma e papà, al San Babila. Un nome che sembrava già allora un omaggio alla città intera, perché il teatro San Babila era Milano che recita sé stessa.

Sul palco c’era Piero Mazzarella, e portava in scena un personaggio che avrebbe lasciato il segno nella mia memoria più di tanti professori, ministri, o commediografi. Il Tecoppa brumista, il cocchiere, il guidatore del brüm, la carrozza milanese a quattro ruote. Un uomo semplice, un po’ poeta, un po’ filosofo di cortile. Uno che, con la sua lingua fatta di milanese impastato di malinconia, ti raccontava una Milano che sembrava già allora sul punto di sparire. Ma che, a teatro, quella sera, era tutta lì davanti a noi. Sotto le luci fioche e sincere del palcoscenico.

Il Tecoppa parlava ai milanesi, ma in fondo raccontava Milano al mondo intero. Con quella voce ruvida e affettuosa, con i gesti larghi del cocchiere e gli occhi di uno che aveva visto tutto, ma non si era mai montato la testa. Era il cuore antico della città, la coscienza popolare che conosce il fango e il freddo, ma anche la dignità silenziosa della fatica. In quella sera d’inverno, mentre fuori i tram arrancavano tra i binari umidi e i fiati si facevano fumo tra le sciarpe, capivo che Milano non era solo il posto dove si lavora. Era il posto dove si ricorda.

Milano nasce da un ricordo antico, troppo antico perché oggi qualcuno ne parli più con convinzione. Nasce dal villaggio celtico di Belloveso, là dove oggi sorge il Duomo. E prima del marmo e delle guglie, prima di Ambrogio e del diritto romano, Milano era Mediolanum: nome che porta con sé un doppio significato. Sì, era la “terra di mezzo”, il punto di equilibrio tra nord e sud, tra Est e Occidente, ma era anche la città della scrofa semilanuta, dell’animale totemico il cui pelo di media lunghezza avrebbe ispirato proprio quel nome.

Un’immagine singolare e arcaica, che pochi ricordano, eppure simbolo identitario fortissimo, ben più originario di ogni successiva romanità. Quella scrofa, oggi, la trovi scolpita in qualche angolo dimenticato del centro, nascosta tra le vetrine di moda e i dehors del marketing, come una vestigia che imbarazza, come se la memoria arcaica fosse sconveniente in tempi che vogliono solo guardare avanti, mai sotto. Eppure quella scrofa è la madre della città. Sotto il Duomo batte ancora un cuore celtico, e ogni pietra messa da Cesare o Napoleone è solo una sovrascrittura. Milano non nasce romana. Milano è più antica della romanità.

Poi venne Napoleone, e con lui l’idea di una capitale moderna, degna di Parigi e di Vienna. Milano si espanse oltre le mura spagnole, cominciò a inglobare borghi, cascine, territori. Divenne città-stato nell’Impero, laboratorio politico e civile. Era l’epoca degli ingegneri e delle rotte nuove, delle strade dritte, dei grandi viali, del Foro Bonaparte. Era una città che si prendeva sul serio, che credeva di potersi riscrivere da zero. Ma anche in quel momento, il genius loci c’era, la memoria rimaneva: nei portici, nei cortili interni, nei Navigli ancora aperti, Milano si lasciava contaminare dal nuovo senza dimenticare l’antico.

Poi venne il Novecento popolare, quello delle fabbriche e delle osterie, dei tram e dei brum. E lì torna Tecoppa, il brumista, quell’ultimo cantastorie di una Milano cortese e fiera, che Piero Mazzarella metteva in scena con tutta la sua bravura e tutto il suo pudore. Non era una Milano mitizzata. Era una Milano vissuta. Una Milano delle case di ringhiera, dei macellai che conoscevano i nomi, degli sguardi lunghi e dei saluti brevi. Era una Milano che ti faceva sentire parte di qualcosa, anche se non avevi studiato a Oxford o non lavoravi per una tech company.

E oggi? Oggi ci si specchia nei grattacieli, si batte cassa con gli skyline. Si parla inglese anche nei bar di quartiere. Le aziende si chiamano con nomi che paiono usciti da una startup californiana. La nebbia non è più poesia, è un inconveniente da segnalare con le app del meteo. Eppure, ogni tanto, quando cammino tra le colonne di San Lorenzo o nei vicoli stretti dietro via Torino, sento il rumore delle ruote del brum sul pavé. Sento il suono del dialetto, quello autentico, non quello da pubblicità. E mi chiedo: dove si è fermato il nostro ricordo?

Milano non è solo una città che cambia. Milano rimuove le sue epoche, le seppellisce con una fretta che fa paura. Ha dimenticato di essere celtica, ha dimenticato di essere imperiale, ha dimenticato persino di essere nebbiosa. Ha voluto farsi nuova ogni volta, senza mai interrogarsi davvero su cosa significasse essere sé stessa. E così oggi rischia di non sapere più chi è, pur essendo tra le più importanti capitali d’Europa.

Eppure, anche oggi, Milano resiste. Lo fa nei dettagli, negli interstizi, nei luoghi che non si fanno fotografare. In una signora che porta la borsa della spesa con la ruota rotta, in un vecchio calzolaio che batte ancora il cuoio in via Padova, in una ragazzina che esce da scuola con la cartella a tracolla e la speranza negli occhi. Lo fa quando una vecchia portinaia saluta il giovane ingegnere in ascensore con un “Bun dì”, e lui, distratto, risponde “buongiorno” senza sapere che quella parola gli ha appena salvato la giornata.

Milano è ancora lì, nonostante tutto. Sotto i rendering, sotto i bonus edilizi, sotto le startup, sotto la movida del giovedì sera. È lì, se solo la si vuole ascoltare. Milano non è una somma di quartieri, né una collezione di investitori. È una voce. È un tono. È un pudore. È quella cosa che non si dice mai tutta, ma si intuisce tra le righe. Come faceva Mazzarella, come fa la nebbia, come fa un vecchio tram che sbuca lento da piazza della Repubblica e scompare oltre il ponte delle Gabelle.

Forse Milano non ha bisogno di ricordare tutto. Ma ha bisogno di riconoscersi. Di sapere che non si è mai davvero città globale se si smette di essere anche paese, anche cortile, anche scrofa pelosa scolpita tra le pietre. Perché le città diventano grandi solo se hanno radici profonde. E Milano, anche quando finge di volare, resta piantata a terra. Nella sua terra di mezzo. Nella sua lana media. Nella sua anima.

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