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De Meo lascia Renault e guarda al lusso con Kering. Crisi delle vendite e conti in affanno: la storia del gioiello francese di Pinault
Dopo cinque anni alla guida del Gruppo Renault, Luca de Meo ha scelto di chiudere un capitolo e di aprirne uno nuovo, sorprendente, in un settore diametralmente opposto a quello da cui proviene. Dal 15 luglio 2025 il suo addio diventerà ufficiale. Per molti, però, la decisione di de Meo ha più il sapore di una fuga meditata che di semplici dimissioni.
“Abbiamo affrontato immense sfide in meno di cinque anni e realizzato ciò che molti pensavano impossibile”, ha commentato. Difficile dargli torto. Il suo curriculum è quello di un risanatore seriale: dal rilancio della Fiat 500 alla creazione di Cupra in Volkswagen, fino al salvataggio di Renault, piegata e quasi senza ossigeno quando ne ha assunto la guida.
Ma perché abbandonare un regno che ha contribuito a ricostruire? La risposta sta proprio nella trasformazione profonda e forse irreversibile del mondo dell’automotive europeo: strozzato da normative sempre più restrittive, schiacciato dalla burocrazia e da una transizione ecologica tanto ambiziosa quanto destabilizzante. Il settore ha perso gran parte del suo fascino. In questo contesto, de Meo sceglie di uscire di scena da vincitore, prima che la curva discendente diventi troppo ripida.
Il prossimo passo del manager è ormai noto: assumerà il timone operativo di Kering, il gigante francese del lusso fondato da François Pinault. Un salto di settore radicale, che lo vedrà approdare in un mondo profondamente diverso per dinamiche, ma non per complessità, visto anche il lusso come l’automotive negli ultimi tempi arranca. Kering oggi è una galassia di marchi iconici: Gucci, Saint Laurent, Balenciaga, Bottega Veneta, Alexander McQueen, Pomellato, Boucheron, Qeelin, Girard-Perregaux e Ulysse Nardin sono solo alcune delle stelle che brillano sotto la sua bandiera. Eppure dietro i loghi patinati, negli ultimi tempi, qualcosa scricchiola. Indubbiamente, il mercato ha apprezzato l’annuncio del nuovo top manager. Il titolo di Kering, infatti, ha chiuso la seduta in Borsa con un rally del +13,5%.
Ma facciamo un passo indietro. La storia di Kering è uno dei racconti d’affari più affascinanti dell’ultimo trentennio. Tutto inizia nel 1963, quando François Pinault apre una società di commercio di legname. Negli anni Ottanta e Novanta, il gruppo (allora ancora Pinault-Printemps-Redoute, PPR) diversifica le attività nel retail e, infine, vira verso il lusso. Il grande turning point arriva nel 1999 con la leggendaria scalata a Gucci, strappata in un’epica battaglia commerciale a Bernard Arnault, patron di LVMH. In pochi anni, sotto la guida di François-Henri Pinault, il gruppo abbandona progressivamente il retail tradizionale e acquisisce maison sempre più prestigiose: Yves Saint Laurent, Boucheron, Bottega Veneta, Balenciaga, Brioni, Pomellato, fino a rinominarsi Kering nel 2013.
Il nuovo nome, ispirato al termine bretone ker (“casa”) cambia pelle al gruppo e segna il definitivo ingresso nell’Olimpo del lusso globale, così da competere ad armi pari con LVMH. Negli anni successivi, Kering si consolida sempre di più nel settore, affiancando alla moda anche la gioielleria e l’orologeria, con brand come Girard-Perregaux e Ulysse Nardin. E parallelamente, sotto la guida di François-Henri Pinault, promuove iniziative filantropiche come la Fondazione Kering, impegnata nella lotta contro la violenza sulle donne.
Ma se la parabola di Kering fino a pochi anni fa sembrava inarrestabile, ora qualcosa è cambiato. Il colosso francese sta affrontando una crisi profonda, con vendite in picchiata e negozi sempre più deserti. Il primo trimestre del 2025 è la fotografia di una forte “emoraggia” dei conti: ricavi giù del 14% a tassi comparabili (3,88 miliardi di euro), con performance negative in Asia-Pacifico (-25%), Europa occidentale (-13%), Nord America (-13%) e Giappone (-11%). A pesare maggiormente è la frenata di Gucci, il brand faro che ad oggi è il grande “malato” del gruppo, con un tracollo del 24% dei ricavi (addirittura -25% su base comparabile), fermandosi a 1,6 miliardi di euro.
Kering resta oggi fortemente dipendente da pochi marchi, fattore che la espone a una volatilità che il suo principale rivale, LVMH, riesce meglio a tamponare grazie a un portafoglio più ampio e diversificato. Finora, la strategia per reagire alla crisi è stata quella classica del settore: cambiare direttori creativi, rilanciare le collezioni, puntare su alta gioielleria e orologeria. Ma evidentemente questo non basta più. Ed ecco perché l’ingresso di un manager come de Meo rappresenta il tentativo di cambiare completamente il paradigma. Un outsider del lusso, sì, ma con un curriculum di rilanci e risanamento che fa gola a qualsiasi gruppo in cerca di nuova linfa.
François-Henri Pinault, che finora ha mantenuto il doppio ruolo di presidente e amministratore delegato, sembra pronto a separare le due cariche, lasciando all’ex di Renault la guida esecutiva. La scommessa è alta: de Meo dovrà capire se le sue doti industriali sapranno applicarsi anche a un mondo dove conta molto più l’immagine che non le economie di scala e l’efficienza produttiva.
Kering, intanto, non può permettersi ulteriori passi falsi. Se de Meo saprà traghettare il gruppo fuori da questa tempesta, lo scopriremo nei prossimi mesi. Ma certo è che il suo arrivo segnerebbe non solo l’inizio di una nuova fase per Kering, ma anche un segnale al settore: per uscire dalla crisi non bastano più le vecchie ricette. Serve visione. E serve coraggio.
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