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I milanesi veri non sanno più dove andare. Restano ai margini, tornano in periferia, guardano la città da fuori

Una volta a Milano ci si veniva con le scarpe pulite, e un desiderio addosso che si chiamava “futuro”. Non serviva avere i soldi, bastava avere l’idea di farcela. Bastava un lavoro in zona Fiera, un affitto in via Padova, un vestito buono per il sabato pomeriggio. Si scendeva in centro non per fare i milanesi, ma per diventarlo, piano piano, col tempo, con garbo, con ambizione. Il centro era la meta, non lo sfondo. E chi arrivava da fuori, dalla Brianza, dal Lodigiano, da Bergamo, dalla pianura e dai laghi, veniva per prendersi un po’ di Milano da riportare a casa. In un paio di paste comprate la domenica mattina. In un soprabito visto in vetrina. In un gesto di eleganza imparato guardando una signora che attraversava via Orefici col passo giusto, e la testa alta. Guarda come la se stima, diceva il nonno.

Milano si stimava perché si era conquistata. Si era guadagnata col lavoro, con la dignità operaia che odorava di treno e torrefazione, con le sirene delle fabbriche e il silenzio delle biblioteche civiche. Era una città severa, ma giusta. Una città che ti misurava, ma poi ti lasciava crescere. E chi ci abitava la viveva con un senso di rispetto reciproco: la città dava, e tu dovevi restituire. In decoro, in onestà, in miglioramento.

Oggi Milano si guarda ancora allo specchio. Ma non si riconosce più. O peggio, fa finta di non riconoscersi. S’è rimessa il rossetto, le scale di pietra grigia nei quartieri nuovi, gli attici vetrati dove però nessuno sa più il nome del vicino. Ha grattacieli eleganti, scale mobili perfette, pavé sterilizzato. Ma manca il profumo della città. Quello del pane caldo la mattina, dei libri scolastici usati, della cera nei corridoi dei palazzi antichi. Quello delle chiacchiere al bar, dei silenzi educati sul tram, della domenica senza rumore, quando la città si riposava e faceva posto all’anima.

E intanto il centro s’è rovesciato. Non è più il luogo dove si sale. È diventato un palcoscenico da occupare, da invadere, da esibire. Ci vengono in molti, a centinaia, senza rispetto e senza progetto. Maranza in branco, con canotte di plastica, pose da Bronx, voci da TikTok, che non hanno niente da dire se non che il centro ora è loro, e va trattato come un cortile sgangherato, con tutta la rabbia di chi non ha mai voluto integrarsi, ma solo occupare. Altro che melting pot. Questa è desertificazione sociale con l’aria condizionata.

E allora i milanesi veri — e ci sono ancora, anche se si nascondono — non sanno più dove andare. Restano ai margini, tornano in periferia, guardano la città da fuori, e non la sentono più propria. E i provinciali che prima venivano con rispetto, oggi si chiedono se valga la pena. Milano è diventata un luogo dove si lavora, ma non si vive. Dove si spende, ma non si cresce. Un luogo che si attraversa, ma non si abita.

Un tempo ci si incontrava per un caffè. Una cosa semplice, elegante. Ci si dava appuntamento al bar Motta, si camminava sotto i portici, si commentavano le vetrine, si prendeva aria di città. Anche chi veniva da fuori imparava qualcosa: che l’ascensore sociale non era solo un’idea, ma una possibilità concreta. Bastava metterci impegno, rispetto, un po’ di stile. E Milano ricambiava.

Ora si costruiscono quartieri scintillanti, con nomi inglesi e piazze numerate. Ma sono quartieri senz’anima. Palazzi da rendita, non da vita. Case che costano troppo per essere amate. Non si sente una voce, non c’è un portinaio, non c’è un’edicola, non c’è un bambino che gioca in cortile. Solo scooter elettrici, delivery, uffici con badge e sale riunioni dove si parla di strategie, ma non si dice più “buongiorno”.

Milano ha dimenticato il bello della propria crescita. Il ritmo umano della sua trasformazione. La pazienza con cui ha costruito sé stessa. Era una città che diventava metropoli senza perdere il cuore. Ora rischia di diventare una metropoli senz’organi vitali. E questo fa male. A lei, a chi la ama, a chi l’ha sempre vista come riferimento. Perché Milano è la Lombardia. È il suo centro morale e materiale. Se perde la misura, la perde tutta la regione.

Ma forse non tutto è perduto. Forse sotto la pelle fredda di questa città che ora non si lascia toccare, batte ancora un cuore caldo e discreto. Forse c’è ancora una signora che sceglie le paste della domenica con cura. Un ragazzo che guarda la vetrina del centro non per selfie, ma per desiderio. Un padre che porta la figlia a vedere il tram che sferraglia. Forse c’è ancora chi si stima. E allora anche Milano può tornare a farlo.

Ma bisogna volerla, questa città. Bisogna rispettarla, anche se non ci sei nato. Bisogna guardarla negli occhi, e non solo nelle stories. Bisogna ricordarsi che Milano, prima di essere una moda, era una speranza civile. E lo può essere ancora.

Guarda come la se stima”, la città. Quando vuole. Quando la fanno essere se stessa.

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