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                <em>Dall’Ufficio Stampa di Elba Book</em>

Le foto delle prime serate dell’Elba Book Festival non necessitano di parole: persone sedute ovunque lungo i vicoli di Rio nell’Elba, dai marciapiedi sino agli angoli di Piazza Matteotti. Centinaia di persone per ascoltare le tavole rotonde, per sostenere la professione dei traduttori grazie al decennale del Premio “Lorenzo Claris Appiani”, per ascoltare il ricordo di Pasolini dalla voce di Dacia Maraini e l’interpretazione delle sue parole, rilette dall’attore Marco Manfredi, per affidarsi ai consigli degli editori indipendenti disposti in Piazza del Popolo e scoprire nuovi orizzonti letterari. Sono oramai undici anni di lavoro incessante quelli che il direttore artistico Marco Belli ricorda nel corso della cerimonia inaugurale del festival, che dal suo nascere si è dedicato alla promozione di un presidio di libertà, la lettura: «Cerchiamo di affrontare temi contemporanei e portiamo nelle piazze di Rio professionisti dell’editoria, libraie e librai, amministratori pubblici e privati, tantissimi lettori che riflettono e si confrontano sull’aria del tempo, e ogni anno ci confermano il piacere di stare insieme. L’impegno corale di Elba Book è andato alla ricerca delle nostre chiavi di volta, metaforicamente di ciò che ci sorregge, che mettiamo al centro, che ci unisce nel vivere tempi difficili e confondenti».

CONTRO OGNI GUERRA: IL DECENNALE DEL PREMIO APPIANI

A dieci anni dalla prima edizione, il premio per la traduzione letteraria intitolato alla memoria di Lorenzo Claris Appiani torna a parlare di Medio Oriente e di scenari di guerra. Inizia, infatti, in un campo profughi al confine fra Siria e Turchia la storia di Zamir (Marcos y Marcos), sfigurato da un’esplosione pochi giorni dopo aver visto la luce. È proprio il traduttore dell’omonimo romanzo di Hakan Günday, Fulvio Bertuccelli, a convincere la giuria composta da Giulia Marcucci, Ilide Carmignani, Nicola Verderame e Hilal Aidin. Impossibile non ritornare con la memoria all’estate 2015, alla vicenda di “Frankenstein a Baghdad”, narrata dalla traduttrice Barbara Teresi, seconda classificata, sulla terrazza del Barcocaio. Al centro la figura di un mostro creato mettendo insieme pezzi di cadaveri, vittime delle numerose esplosioni kamikaze che dilaniavano all’epoca dei fatti la capitale irakena. Quella prima edizione, dedicata alla lingua araba, fu vinta da Ramona Ciucani, traduttrice della raccolta di poesie Il giocatore d’azzardo (Mesogea) di Mahmoud Darwish, l’autore palestinese che aveva scritto per la sua terra la Dichiarazione d’Indipendenza del 15 novembre 1988.

«Il premio Appiani ha rappresentato in questi anni non solo l’occasione di conoscere meglio il mestiere del traduttore – conferma la docente Roberta Bergamaschi – ma grazie alla voce di traduttori e traduttrici ha soprattutto creato un ponte tra la nostra lingua e lingue diverse, più o meno distanti dalla nostra (dopo l’arabo il russo, il cinese, il portoghese, il giapponese, l’ebraico, il francese, lo spagnolo, il tedesco, il turco). È stato un modo per condividere la gioia e la difficoltà di guardare le cose e chiamarle con il loro nome: “In verità, se devo dire la mia, in questo mondo tutti sono degli osservatori, perché tutto inizia e finisce sotto gli occhi di tutti”, scrive proprio Günday nella traduzione di Bertuccelli».

TRA PASOLINI E FOFI

Tra uno speech e l’altro, all’imbrunire ha preso il via la maratona di letture condivise dedicate alla memoria di Pasolini e alla sua lotta contro un potere egoriferito: «La colpa non ha fine se non col perdono: ma il perdono è anch’esso qualcosa che viene dall’alto: è ancora il potere che perdona. Il reato invece ha un principio e una fine: è un episodio che può non ripetersi. E non si ripete non per paura del castigo (che, al contrario, contribuisce a rendere “assoluta” e senza fine la colpa), ma per una libera scelta della coscienza. Le prigioni dovrebbero essere i luoghi dove la coscienza ha la possibilità di uscire dal circolo vizioso colpa-castigo e di compiere di conseguenza libere scelte. Insomma, la prigione dovrebbe essere una scuola». Sul palco di Elba Book ha aperto la giornalista Antonella Cortese del programma “Liberi dentro”, leggendo la lettera dell’intellettuale ai carcerati di Parma, datata 1969, seguita da Manfredi con un frammento di Petrolio e da Maria Lodi, la quale ha omaggiato immancabilmente Goffredo Fofi con un brano dedicato alla libertà e all’educare le nuove generazioni.

A cinquant’anni dalla scomparsa di PPP essere intellettualmente onesti, affrontare i temi spinosi della contemporaneità, incarnare contraddizioni e assumersene la responsabilità fino in fondo, sottolineando il valore primario del confronto intellettuale, con un senso di nostalgia e spaesamento che molti di noi sentono oggi per la distanza che si respira da tutto questo nel nostro vivere quotidiano. È stato denso e appassionato il confronto tra Dacia Maraini, Aldo Nove e Giorgiomaria Cornelio, moderati da Graziano Graziani, Aldo Nove insolitamente pacato e dolce, visibilmente commosso nel ricordare il fuoco sacro di Pasolini, la luce delle sue parole, poetiche e taglienti. Nove ha ricordato le lacrime di Edoardo Sanguineti di fronte alla perdita del grande intellettuale, davanti a una piazza attenta, silenziosa, coinvolta. Cornelio, che ha appena dato alle stampe Ogni creatura è un popolo (Nero) con Maglio e Pigliapoco, si è soffermato sulla necessità e sul diritto per gli artisti di essere imperfetti e di essere valutati per le loro opere, non per la loro vita: «il mio film preferito è da sempre Salò, per la sua scandalosità dirompente». Domani sera, venerdì 18, alle 21:30, “le chiavi di volta del clima” saranno il fulcro del gran finale: insieme ai vincitori del quinto Premio Demetra per la letteratura ambientale indipendente, il divulgatore scientifico nonché meteorologo Giulio Betti ed Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, si confronteranno incalzati da Stefano Lamorgese.

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