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Referendum, i cinque i principali naufragi elettorali nella storia della Repubblica
Dal 2 giugno 1946, data del primo referendum in Italia in cui i cittadini furono chiamati a scegliere tra monarchia e repubblica, si possono contare ben 83 referendum nazionali, di cui 78 di carattere abrogativo, attraverso i quali gli elettori hanno avuto la possibilità di cancellare – cioè abrogare- in tutto o in parte una legge esistente. In questa tradizione democratica si inserisce anche il referendum dell’8 e 9 giugno 2025, al centro del dibattito politico e mediatico di questi giorni, con quattro quesiti riguardanti il lavoro e uno sulla cittadinanza.
Tuttavia, non mancano le preoccupazioni circa il reale raggiungimento del quorum del 50% +1 degli aventi di diritto al voto, elemento fondamentale per determinarne la validità e l’efficacia. In un passato segnato da ripetuti fallimenti nella partecipazione, questo nuovo appuntamento elettorale rappresenterà l’ennesima conferma della disaffezione civica e politica dei cittadini italiani? Oppure segnerà un inaspettato cambio di rotta nel percorso democratico della nostra Repubblica? In attesa dei risultati, ripercorriamo quelli che sono stati i cinque casi più emblematici del crollo della partecipazione nella storia dei referendum abrogativi.
Iniziamo dal 15 giugno 1997, quando gli elettori furono chiamati alle urne per scegliere di eliminare o meno leggi in materia di privatizzazione, obiezione di coscienza, accesso dei cacciatori a fondi privati, carriere dei magistrati, ordine dei giornalisti, incarichi extragiudiziari dei magistrati ed abrogazione della legge che istituiva il ministero delle risorse agricole, alimentati e forestali. A tale appuntamento elettorale si recò alle urne solo circa il 30,2% degli aventi diritto, decretando così l’invalidità dei quesiti e il fallimento dell’iniziativa referendaria.
A seguire, il 15 giugno 2003, il quesito referendario riguardava la reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati, ed in particolare l’abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, al fine di garantire a tutti i lavoratori licenziati senza giusta causa il diritto di reintegro nel posto di lavoro. In questa occasione l’affluenza alle urne si fermò tragicamente intorno al 25,6%.
Un ulteriore fallimento per la democrazia italiana si registrò, poi, il 12 e 13 giugno 2005, quando gli italiani furono chiamati a votare sull’abrogazione parziale della legge sulla procreazione medicalmente assistita, comprese norme che limitavano la ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni e vietavano la fecondazione eterologa. Anche in questa circostanza il quorum non venne raggiunto, al contrario si toccò uno dei minimi storici di affluenza, con circa il 25,5% dei votanti.
Infine, due dei casi più emblematici del crollo della partecipazione referendaria si registrarono con i referendum del 21-22 giugno 2009 e del 12 giugno 2022, che toccarono percentuali di affluenza tra le più basse di sempre: rispettivamente il 23,3% e il 20,4%. Il primo, in materia di elezione della Camera dei deputati e del Senato, proponeva l’abrogazione della possibilità di collegamento tra liste e di attribuzione del premio di maggioranza ad una coalizione di liste, e l’eliminazione della possibilità per uno stesso candidato di presentare la propria candidatura in più di una circoscrizione.
La materia del secondo appuntamento elettorale verteva, invece, sull’incandidabilità dopo la condanna, sulla limitazione delle misure cautelari, sulla separazione delle funzioni dei magistrati e sull’elezione dei membri togati del CSM. In particolare, si chiedeva, tra le varie proposte, l’abrogazione del decreto attuativo della legge Severino che prevede l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza per gli esponenti politici condannati in via definitiva, la separazione della carriera di pubblico ministero da quella di giudice, l’introduzione della possibilità da parte di membri laici (avvocati e docenti di diritto) di partecipare alle valutazioni dell’operato dei magistrati nei consigli giudiziari, e l’abrogazione dell’obbligo di presentare dalle 25 alle 50 firme per il magistrato che voglia candidarsi al Consiglio superiore della magistratura.
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