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Automotive, sprofonda il mercato in Italia: 50mila lavoratori a rischio
L’industria automobilistica italiana è a un punto di non ritorno. Una crisi a più facce che mette a nudo problemi strutturali, pressioni globali e decisioni aziendali che potrebbero far crollare uno dei settori storicamente centrali dell’economia nazionale. Le stime di Alix Partners sono impietose: se la produttività non aumenta, la filiera rischia di perdere almeno 50.000 posti di lavoro.
Una bomba occupazionale che esploderà in un panorama già soffocato dalla concorrenza spietata del Dragone, che ha invaso il mercato europeo a suon di tecnologie avanzate nelle auto elettriche e prezzi e costi di produzione più bassi del 20%. La Penisola invece è fiaccata da anni di decisioni sbagliate e sconsiderate, e non basta più sbandierare il “Made in Italy” come nullaosta contro la crisi. Purtroppo l’industria italiana soffre da decenni, colpita dalla stagnazione degli investimenti e da una produzione in calo ormai dagli anni ’90. L’Italia paga più del doppio rispetto a Francia e Spagna per ogni megawattora (103 euro contro contro i 49 della Francia e i 53 della Spagna).
Stellantis, l’unico grande produttore rimasto in Italia, fa i suoi conti e sposta investimenti e produzioni altrove, in particolare in Spagna, dove il costo del lavoro è più basso e la produttività più alta. Il risultato? A Melfi e Mirafiori la produttività è inferiore del 38% rispetto alla Spagna, come quello di Saragozza. È colpa dei lavoratori? No. È una scelta aziendale. Stellantis non investe più come dovrebbe, assume a rilento, invecchia la forza lavoro—l’età media a Mirafiori è di 57 anni—e chi ha esperienza viene incentivato a lasciare.
D’altro canto gli incentivi e le manovre del governo, come i 950 milioni di euro in aiuti nel 2023, non sono riusciti a cambiare la rotta. Né le pressioni del ministro Urso, che ha tentato di convincere il colosso di John Elkann a produrre almeno un milione di veicoli in Italia nel 2024. No Stellantis ha tirato dritto per la sua strada: “Produrre dove costa meno”. Oggi risponde agli azionisti, non all’Italia, e la famiglia Agnelli-Elkann non si fa scrupoli a delocalizzare. Nemmeno le provocazioni sul cambio di nome delle Alfa Romeo prodotte in Polonia e sull’assenza del tricolore nelle Topolino fabbricate in Marocco hanno spinto il gruppo a restituire qualcosa a un Paese che in passato gli ha dato moltissimo.
Cosa ci rimane allora? La politica industriale italiana appare inesistente e frammentata, mentre la transizione all’elettrico procede troppo lentamente. Il ritorno al nucleare, proposto per abbattere i costi energetici, richiederà almeno 12 anni. Tuttavia questo arresto del settore non tocca solo Stellantis, o l’Italia, e si allarga anche a Oriente. La situazione è talmente critica che Nissan, come già Volkswagen, ha annunciato tagli globali di posti di lavoro e una riduzione della capacità produttiva del 20%. La multinazionale giapponese ha avviato un piano d’emergenza che prevede una ristrutturazione con il taglio di 9.000 posti di lavoro, pari a quasi il 7% della sua forza lavoro complessiva di 133.580 dipendenti.
La crisi sembra essere quasi globale, ma per l’Italia il rischio di perdere 50 mila posti di lavoro nell’automotive è un campanello d’allarme fortissimo, specie considerando il recente taglio dei 4,6 miliardi previsti dal governo Draghi per sostenere il settore. Dobbiamo svegliarci: lamentarsi della “fuga” di Stellantis e di Elkann serve a poco se si continua a ignorare la necessità di una strategia industriale solida e lungimirante. È ora di fare i conti con la realtà, di uscire dal limbo dell’attendismo e di pianificare un futuro per l’automotive italiano, prima che sia troppo tardi.
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