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Generali e lo “spettro” CDP
C’è un’antica usanza, tutta italiana, che si ripresenta puntuale come un orologio svizzero ogni volta che il mondo della finanza si agita: tirare fuori dal cilindro CDP e invocare il suo ingresso nelle grandi partite industriali e finanziarie come panacea di tutti i mali.
La proposta di far entrare Cassa Depositi e Prestiti in Generali è l’ultimo esempio di questa strategia miope, che Carlo Messina ha demolito con un ragionamento tanto semplice quanto devastante: Generali non ha bisogno di protezione nazionale perché non rappresenta un asset strategico sotto attacco. Punto. Ma allora, perché ogni volta che si parla di Generali qualcuno si ostina a volerla “difendere” con CDP?
Il fallimento di un’illusione
La verità è che CDP, da simbolo di sviluppo, da luogo sicuro per i risparmi postali degli italiani, da vessillo di italianità, è diventato invece una sorta di spettro che con cadenza periodica viene agitato per dirimere le partite. A volte, con esiti che lasciano perplessi, come nel caso della rete, con la Cassa che si ritrova in un groviglio per cui detiene al tempo stesso una partecipazione del 10% in Tim e del 60% in Open Fiber, mentre il Mef e F2i sono azionisti di FiberCop.
Insomma, si tenta di ricostruire in Via Goito il famoso salotto buono, che un tempo albergava in Piazzetta Cuccia. Un modello che Mediobanca ha abbandonato da anni, aprendo le porte al mercato. Certo, non si può dire che Alberto Nagel e il suo management siano particolarmente “comunicativi”, ma hanno sempre remunerato gli azionisti in maniera apprezzabile, tant’è che raramente si è assistito – come invece a Trieste – anche solo al tentativo di mettere in dubbio il suo potere.
Davvero vogliamo credere che l’intervento di uno strumento pubblico possa competere con logiche globali in cui i fondi sovrani asiatici, i grandi player americani e gli investitori istituzionali dettano le regole? È una pretesa anacronistica, quasi comica, che espone l’Italia a figuracce e rischi inutili.
Il caso Generali: un gigante sotto attacco?
La verità è che Generali, nonostante le pressioni, ha dimostrato di essere un gigante in grado di reggersi sulle proprie gambe. Ha due azionisti determinati e “di peso” come Francesco Gaetano Caltagirone e Delfin, che criticano tutt’ora la capitalizzazione deficitaria del Leone rispetto ai competitor europei. Ma da anni Generali non fa affidamento sui governi per sopravvivere.
Al contrario, ha costruito una strategia solida e internazionale, dimostrando che le imprese italiane possono competere con successo senza il supporto delle istituzioni pubbliche. E qui sta il punto: CDP non rafforzerebbe Generali, anzi. Il suo ingresso rischierebbe di politicizzare una realtà che ha bisogno di mercato, non di nuove logiche di palazzo.
Le mosse del governo
Posto che questo governo, in materia economica, ha molte anime Giorgia Meloni ha dimostrato di saper fare tesoro degli errori: la tassa sugli extraprofitti delle banche è stata un disastro annunciato, ma alla fine è stata ricalibrata con una mossa più sensata. Non stupirebbe se fosse proprio lei a spegnere le voci di chi vorrebbe usare CDP come arma di protezione. Sarebbe una scelta lungimirante, che segnerebbe una rottura con un passato di scelte affrettate e dannose.
Il futuro di Generali: mercato, non palazzo
Generali non ha bisogno di CDP per difendersi, ma di continuare sulla strada dell’internazionalizzazione e del rafforzamento delle sue competenze interne. Intromettere la Cassa significherebbe ridurre l’indipendenza di una delle poche realtà italiane capaci di giocare al tavolo dei grandi. E significherebbe, ancora una volta, cedere all’illusione che il controllo si possa esercitare dall’alto, ignorando che il mercato non perdona. È tempo di abbandonare le nostalgie e guardare avanti: il mondo è cambiato, e l’Italia deve cambiare con lui.
UniCredit-Bpm: una fusione necessaria per evitare altre illusioni?
E mentre si discute di CDP e Generali, c’è un’altra partita che meriterebbe maggiore attenzione: UniCredit e Banco BPM. Qui si tratta di costruire un campione bancario nazionale che abbia le dimensioni e la forza per competere in Europa. Un consolidamento tra i due gruppi non solo avrebbe senso industriale, ma sarebbe la risposta concreta a chi invoca la necessità di proteggere il sistema finanziario italiano.
L’unica difesa possibile, infatti, è crescere. E per farlo, servono strategie di mercato, non nostalgie di un passato ormai superato. Anche perché con Trump che incombe e con lo spettro di nuove tensioni economiche o si punta a una integrazione europea che porti alla costruzione di giganti capaci di competere con Usa e Cina o il rischio è uno solo: diventare provincia dell’impero, anzi, degli imperi.
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